Archive for giugno 2014

Uccidi il padre

Quando un romanzo è preannunciato da iperboliche promesse –  prima ancora di entrare in libreria, esagerando un po’ vorremmo quasi dire prima ancora di essere scritto -, s’ingenera nel lettore un grande clima d’aspettativa che può essere onorata dal risultato atteso, o – in parte delusa – se la lettura dell’opera non sembra mantenere le promesse. A nostro personale avviso, questa è proprio la sorte di Uccidi il padre (Mondadori, pp.562, euro 18) il nuovo thriller di Sandrone Dazieri che – in un video promozionale al fianco del suo editor – annuncia, pimpante, come il noir debba ormai considerarsi desueto in quanto ‹‹ripete se stesso››, diventando un’ espressione letteraria ‹‹di maniera››. Con buona pace di Georges Simenon & Company, pensiamo noi, confortati anche dall’ “originale” pensiero dell’autore che nel titolo e nella sostanza di questo suo nuovo libro avverte, vedi un po’, significati freudiani. Impressionati dal video, dalle affermazioni stigmatizzanti contro i colleghi di scrittura, presenzialisti in trasmissioni televisive, dove  sembrano sostituirsi alla magistratura, o ispirati da fatti di cronaca, materia riservata ai giornalisti. e soprattutto dall’importante carnet che l’autore ha alle spalle – infatti, lasciati da parte pentole e fornelli -, questo cinquantenne cremonese,  da cuoco a scrittore, ha fatto un balzo in avanti d’incredibile potenza – ci dedichiamo, finalmente,  alla lettura della sua nuova opera .

Entriamo dentro le labirintiche pagine, incontrando la scomparsa di un bambino nella campagna romana. Sua madre è stata trovata morta sgozzata. Gli inquirenti credono che il responsabile sia il marito della donna che – in preda ad un raptus – avrebbe ucciso anche il figlio, nascondendone il corpo. Ma non è facile darla a bere a Colomba Caselli, l’androgina detective non più in servizio, ma pur sempre tanto valutata. (‹‹Colomba non passava inosservata con il corpo muscoloso dalle spalle larghe e il viso dagli zigomi alti e forti. Il viso di una guerriera aveva detto una volta un suo amante, che correva a pelo sui cavalli e tagliava la testa dei nemici con la scimitarra ››). La “guerriera” subito s’insospettisce – giunta sul luogo del delitto. Il suo vecchio capo la mette in contatto con un consulente, superesperto di casi difficili: Dante Torre, soprannominato ‹‹l’uomo del silos››, in odore di genio, tanto abile, quanto schiacciato da paranoie e fobie, strascico di sevizie subite in età infantile, rapito e segregato, cresciuto negli spazi di un silos dove veniva educato dal misterioso essere che si faceva chiamare ‹‹il Padre››.

Colomba, perseguitata da continui attacchi di panico, ha alle spalle un fallimento indimenticabile che le risuona nella memoria come ‹‹il Disastro››. Insomma, la ‹‹Guerriera›› e il ‹‹Genio›› dovranno lottare contro oscure trame esterne (complotti militari, farmaci sperimentali) e, nel contempo, contro il loro intimo male oscuro.

La narrazione s’ingarbuglia sempre più, giocando tra il reale e l’onirico (terreno difficilissimo ed insidioso, questo! Tolkien docet), fino all’epilogo che non anticiperemo, com’è nostro uso, trattandosi di un thriller.

Nel 1999 è uscito il  primo romanzo di Dazieri: Attenti al gorilla (Mondadori), cui hanno fatto seguito numerosi altri, saltabeccando da Mondadori ad Einaudi, avanti e indietro. E non solo. Anche la sceneggiatura televisiva gli ha dato grandi soddisfazioni, curatore di serie di successo, per chi ama il genere.

Grazia Giordani

 

Tavolo da bridge

TAVOLO DA BRIDGE  

Si riunivano da ormai quasi trent’anni attorno a quel tavolo scuro. Sorretto da gambe massicce, vestito di un panno verde, ai bordi scolorito: un vestito senza mode e senza tempo, testimone muto delle loro lente smazzate. Un tavolo per quattro, a volte compiacente e un po’ sornione. Mentre le mani disponevano picche e fiori in meditate combinazioni, i piedi dei giocatori avevano – soprattutto in passato – lavorato sotto ambigui e tentatori.
I piedi di Clara erano lunghi e sottili, calzati spesso da mocassini morbidi, facili da sfilare, estremità di una donna irrequieta, la voce roca per il troppo tabacco, l’abbigliamento casual, quasi maschile, i calzoni di buon taglio, bluse molto aperte a mostrare l’inizio di seni piccoli ed eretti.
Claudio, il marito, era un uomo taciturno, grande calcolatore nel gioco, considerato la “mente”, il mago della licitazione, che sapeva spaziare con intelligenza nel misterioso giardino dei fiori “Romano”, “Napoletano” e forse anche di “Timbuctù”…. Così almeno commentava Clara, gelosa della razionalità inesorabile del consorte, in conflitto con la sua ironica fantasia.
Nel gioco preferivano dividere le coppie. Marta, meno irrequieta, più remissiva dell’amica, subiva con classe le ire di Claudio e, al tavolo verde, ne diventava l’altra metà. Una metà in sottordine, come la spalla per il comico, la sguattera per il cuoco.
Alain, il marsigliese della compagnia, era il più enigmatico dei quattro. La sua condotta di gioco appariva irregolare, ora piena di slanci e di concessioni alla creatività, ora ingrigita dai trent’anni di appuntamenti.
In passato era parso che Marta e Alain – i due single per elezione – nutrissero una reciproca viva simpatia. C’era stato qualche viaggio con pernottamento in piccole stanze di alberghi altoatesini, riscaldate d’inverno da caminetti divorati dal divampare delle fiamme. E poi un week-end a Parigi, presi dalla “grandeur” della città, nutriti in piccoli ristoranti di Montmartre, come turisti qualsiasi, senza pretese di distinzione. Liberi, disinibiti, avevano goduto di questo flash d’amore fisico che non li aveva vincolati a niente: né a reciproca fedeltà, né a sentimenti profondi. Di quelli che parlano il linguaggio del “ti amerò per tutta la vita”.
Poi Alain si innamorò veramente di Clara. Se ne accorse una sera, quando osservando il volto dell’amica riflesso nello specchio, provò quasi una fitta dolorosa, una voglia di averla tutta per sé, di toccare le sue carni color miele, di perdersi dentro quella scollatura sempre offerta. Si chinò fingendo di raccogliere una carta da gioco e sfiorò con le dita la sporgenza del suo ginocchio. La gamba di Clara “rispose”, accostandosi alla sua mano con abbandono. Fu un linguaggio istantaneo, una “licitazione” cui non seppero sottrarsi, piena di antiche malie. Claudio non diede segno di capire, chiuso in una specie di impermeabile di indifferenza, sembrava interessato alle “donne di cuori”, piuttosto che alla sua legittima compagna. Da tempo la teneva lontana nel grande letto matrimoniale, preferendo la lettura di manuali di bridge alle effusioni della consorte. Non notava le maliziose combinazioni di pizzo nero che svelavano più che velare i tenui boccioli del suo seno e le cosce efebiche di donna che invecchierà tardi. Le carte non le bastavano. Nella vita aveva altri interessi: slanci sociali, cinema d’avanguardia, pittura, fumetti di Linus. Adorava le patatine fritte a mezzanotte, le sorprese, i viaggi senza meta, gli imprevisti di tutti i tipi.
Alain la travolse. Fu all’epoca di questa passione che i loro piedi presero a “parlare” sotto il tavolo, inverecondi più che mai. Fu tutto uno sfilarsi di mocassini, di alluci strisciati lungo le gambe dell’uno o il ventre dell’altra, mentre le mani continuavano a regolare la danza delle carte, colpevoli ed imprecise, animate da una gioia trasgressiva, sempre più eccitante.
Gli incontri nella piccola garçonnière di Alain forse non erano così appaganti come lo scambio di effusioni del sottotavolo. I corpi, nella stanza del marsigliese – svelati dalle inutili lenzuola nei lunghi pomeriggi -, erano affamati, quasi crudeli nello scambiarsi ardore, ma non raggiungevano mai la soddisfazione allusiva delle sere al tavolo verde.
Marta soffriva per l’orgoglio ferito. Si sentiva tradita più dall’amica che dall’amante. Era divisa tra due atteggiamenti opposti. Da un lato cercava di inventare scuse per rimandare gli appuntamenti al bridge: senza la sua presenza, l’incantamento si sarebbe rotto, la love-story avrebbe avuto degli impedimenti. D’altro canto si comportava come l’assassino che torna su luogo del delitto: non riusciva a svincolarsi del tutto dall’appuntamento col tavolo galeotto, masochista ed impietosa contro se stessa.
Come tutte le passioni, anche questa si spense e divenne una sbiadita amicizia. Clara entrò in una fase di vita sedentaria. Forse divenne più riflessiva, meno sognatrice, ma anche meno appagata e capace di dare sprint a chi le viveva al fianco.
Marta aveva avuto un’altra storia breve e poco gratificante con un greco, incontrato occasionalmente a teatro, e che aveva tentato – in parte riuscendoci – di estorcerle del denaro. Alain era chiuso in un riserbo sempre più impenetrabile, della sua vita privata non si sapeva ormai più niente. Claudio continuò nella sua abulia di bridgista a tempo pieno, posato ,metodico nel fare tutto al tempo giusto e con la debita pignoleria, come piegare il tovagliolo prima di alzarsi da tavola o spremere il tubetto del dentifricio dal basso, senza sprechi inutili.
I quattro bridgisti – dopo un lungo intervallo – si riunirono in una serata invernale piena di vento. Folate fredde si insinuavano nella stanza attraverso le fessure della finestra. La camera era in penombra. Alain accese una lampada dal lungo stelo che proiettò una luce innaturale sulla smazzata chiara nel verde del tappeto, quasi una croce copta stilizzata, parte di un rituale troppe volte ripetuto. Sembrava un disegno di morte, di fine di amori ad incastro, d’inizi di pallide amicizie senza calore. Il gioco non aveva più senso fra loro, privo dei sottintesi del passato; si svolgeva ormai solo sul tavolo senza i risvolti furtivi, non nascondeva più le ombre delle loro vite, non era proiezione di manovre del sottosuolo. Che senso avrebbe avuto continuare? Claudio pensò: “Cercherò altri partner più vivi. Con loro è diventata una noia misurarsi. Clara, Alain e Marta sono ormai dei giocatori fantasma, molluschi senza supporto interiore, mutilati dalla fine dei loro “giochini”. Povera gente scialba, dagli ideali sbiaditi! È giunto il momento di scaricarli, come zavorra da gettare a mare”.

Grazia Giordani

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TAVOLO DA BRIDGE

Si riunivano da ormai quasi trent’anni attorno a quel tavolo scuro. Sorretto da gambe massicce, vestito di un panno verde, ai bordi scolorito: un vestito senza mode e senza tempo, testimone muto delle loro lente smazzate. Un tavolo per quattro, a volte compiacente e un po’ sornione. Mentre le mani disponevano picche e fiori in meditate combinazioni, i piedi dei giocatori avevano – soprattutto in passato – lavorato sotto ambigui e tentatori.
I piedi di Clara erano lunghi e sottili, calzati spesso da mocassini morbidi, facili da sfilare, estremità di una donna irrequieta, la voce roca per il troppo tabacco, l’abbigliamento casual, quasi maschile, i calzoni di buon taglio, bluse molto aperte a mostrare l’inizio di seni piccoli ed eretti.
Claudio, il marito, era un uomo taciturno, grande calcolatore nel gioco, considerato la “mente”, il mago della licitazione, che sapeva spaziare con intelligenza nel misterioso giardino dei fiori “Romano”, “Napoletano” e forse anche di “Timbuctù”…. Così almeno commentava Clara, gelosa della razionalità inesorabile del consorte, in conflitto con la sua ironica fantasia.
Nel gioco preferivano dividere le coppie. Marta, meno irrequieta, più remissiva dell’amica, subiva con classe le ire di Claudio e, al tavolo verde, ne diventava l’altra metà. Una metà in sottordine, come la spalla per il comico, la sguattera per il cuoco.
Alain, il marsigliese della compagnia, era il più enigmatico dei quattro. La sua condotta di gioco appariva irregolare, ora piena di slanci e di concessioni alla creatività, ora ingrigita dai trent’anni di appuntamenti.
In passato era parso che Marta e Alain – i due single per elezione – nutrissero una reciproca viva simpatia. C’era stato qualche viaggio con pernottamento in piccole stanze di alberghi altoatesini, riscaldate d’inverno da caminetti divorati dal divampare delle fiamme. E poi un week-end a Parigi, presi dalla “grandeur” della città, nutriti in piccoli ristoranti di Montmartre, come turisti qualsiasi, senza pretese di distinzione. Liberi, disinibiti, avevano goduto di questo flash d’amore fisico che non li aveva vincolati a niente: né a reciproca fedeltà, né a sentimenti profondi. Di quelli che parlano il linguaggio del “ti amerò per tutta la vita”.
Poi Alain si innamorò veramente di Clara. Se ne accorse una sera, quando osservando il volto dell’amica riflesso nello specchio, provò quasi una fitta dolorosa, una voglia di averla tutta per sé, di toccare le sue carni color miele, di perdersi dentro quella scollatura sempre offerta. Si chinò fingendo di raccogliere una carta da gioco e sfiorò con le dita la sporgenza del suo ginocchio. La gamba di Clara “rispose”, accostandosi alla sua mano con abbandono. Fu un linguaggio istantaneo, una “licitazione” cui non seppero sottrarsi, piena di antiche malie. Claudio non diede segno di capire, chiuso in una specie di impermeabile di indifferenza, sembrava interessato alle “donne di cuori”, piuttosto che alla sua legittima compagna. Da tempo la teneva lontana nel grande letto matrimoniale, preferendo la lettura di manuali di bridge alle effusioni della consorte. Non notava le maliziose combinazioni di pizzo nero che svelavano più che velare i tenui boccioli del suo seno e le cosce efebiche di donna che invecchierà tardi. Le carte non le bastavano. Nella vita aveva altri interessi: slanci sociali, cinema d’avanguardia, pittura, fumetti di Linus. Adorava le patatine fritte a mezzanotte, le sorprese, i viaggi senza meta, gli imprevisti di tutti i tipi.
Alain la travolse. Fu all’epoca di questa passione che i loro piedi presero a “parlare” sotto il tavolo, inverecondi più che mai. Fu tutto uno sfilarsi di mocassini, di alluci strisciati lungo le gambe dell’uno o il ventre dell’altra, mentre le mani continuavano a regolare la danza delle carte, colpevoli ed imprecise, animate da una gioia trasgressiva, sempre più eccitante.
Gli incontri nella piccola garçonnière di Alain forse non erano così appaganti come lo scambio di effusioni del sottotavolo. I corpi, nella stanza del marsigliese – svelati dalle inutili lenzuola nei lunghi pomeriggi -, erano affamati, quasi crudeli nello scambiarsi ardore, ma non raggiungevano mai la soddisfazione allusiva delle sere al tavolo verde.
Marta soffriva per l’orgoglio ferito. Si sentiva tradita più dall’amica che dall’amante. Era divisa tra due atteggiamenti opposti. Da un lato cercava di inventare scuse per rimandare gli appuntamenti al bridge: senza la sua presenza, l’incantamento si sarebbe rotto, la love-story avrebbe avuto degli impedimenti. D’altro canto si comportava come l’assassino che torna su luogo del delitto: non riusciva a svincolarsi del tutto dall’appuntamento col tavolo galeotto, masochista ed impietosa contro se stessa.
Come tutte le passioni, anche questa si spense e divenne una sbiadita amicizia. Clara entrò in una fase di vita sedentaria. Forse divenne più riflessiva, meno sognatrice, ma anche meno appagata e capace di dare sprint a chi le viveva al fianco.
Marta aveva avuto un’altra storia breve e poco gratificante con un greco, incontrato occasionalmente a teatro, e che aveva tentato – in parte riuscendoci – di estorcerle del denaro. Alain era chiuso in un riserbo sempre più impenetrabile, della sua vita privata non si sapeva ormai più niente. Claudio continuò nella sua abulia di bridgista a tempo pieno, posato ,metodico nel fare tutto al tempo giusto e con la debita pignoleria, come piegare il tovagliolo prima di alzarsi da tavola o spremere il tubetto del dentifricio dal basso, senza sprechi inutili.
I quattro bridgisti – dopo un lungo intervallo – si riunirono in una serata invernale piena di vento. Folate fredde si insinuavano nella stanza attraverso le fessure della finestra. La camera era in penombra. Alain accese una lampada dal lungo stelo che proiettò una luce innaturale sulla smazzata chiara nel verde del tappeto, quasi una croce copta stilizzata, parte di un rituale troppe volte ripetuto. Sembrava un disegno di morte, di fine di amori ad incastro, d’inizi di pallide amicizie senza calore. Il gioco non aveva più senso fra loro, privo dei sottintesi del passato; si svolgeva ormai solo sul tavolo senza i risvolti furtivi, non nascondeva più le ombre delle loro vite, non era proiezione di manovre del sottosuolo. Che senso avrebbe avuto continuare? Claudio pensò: “Cercherò altri partner più vivi. Con loro è diventata una noia misurarsi. Clara, Alain e Marta sono ormai dei giocatori fantasma, molluschi senza supporto interiore, mutilati dalla fine dei loro “giochini”. Povera gente scialba, dagli ideali sbiaditi! È giunto il momento di scaricarli, come zavorra da gettare a mare”.

Grazia Giordani

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Le mani

Le mani

Scrivevano geroglifici illeggibili le gocce di pioggia cadute sul vetro sporco della grande finestra. Squallore ovunque in quel piccolo caffè. Scrostati i tavoli, bisognosi almeno di una bella passata di spugna. Poco nitidi i bicchieri, lavati da inservienti svogliate, che sbadigliavano dietro il bancone in attesa del cambio.

Ormai, Marta era lì, anche per ripararsi dalla pioggia, soprattutto per ammazzare il vuoto del suo inutile pomeriggio.

Quando stava per alzarsi e prendere congedo, senza rimpianto, da quel luogo poco accogliente, vide le sue mani. Mani martoriate – pensò – mani che descrivevano un carattere e un passato più di un volto. Le nocche arrossate sporgevano contratte, lasciando lentamente scorgere le unghie rosicchiate fin quasi alla matrice. Che strano! Mani estranee alla persona cui sembravano appartenere per caso, come se fossero lì appiccicate provvisoriamente, tanto i polsi, invece,  erano forti e ben torniti. Distogliendo a fatica lo sguardo da quelle dita sofferenti, incontrò due occhi castani, un po’ spiritati, un naso di forma perfetta, tanto da sembrare scolpito nettamente nel fondale di una carnagione avorio , non toccata dal tempo. E quindi un collo elegante, due belle spalle atletiche, gambe lunghe, sdraiate sotto il tavolo. Gli abiti rispecchiavano l’abbigliamento casuale di chi non si guarda troppo allo specchio. Argentei alle tempie i capelli ricci, indisciplinati. Emanava un fascino – come dire? – emaciato. Uno charme di tribolazione, di martirio interiore, di pensieri foschi.

Certamente era bello, ma avrebbe potuto esserlo di più se il suo modo di guardare avesse dato segno di vedere veramente il mondo circostante. I suoi occhi allucinati stampavano nel cuore dell’osservatrice la sensazione che contemplasse solo sé stesso, introflesso fino allo spasimo.

Pagò il conto, con quelle dita di dolore, e uscì nella pioggia – che si era fatta più battente – senza ombrello, berretto, indifferente all’acqua che gli scorreva dentro il colletto della giacca.

Marta lo seguì per un tratto di strada, mantenendo una ragionevole distanza, anche se poco assennato le sembrava questo suo piccolo inseguimento. Camminarono nella via deserta, lastricata di solitudine, per circa venti minuti. Non era difficile mantenere la distanza di sicurezza, tanto le gambe lunghe dell’uomo correvano veloci, rispetto a quelle di Marta, ostacolate dai tacchi alti.

All’improvviso, lo vide entrare in uno stabile scuro, quasi fosse ingoiato da una porta girevole a vetri che ne rimandava l’immagine deformata, come una beffa del destino.

Questa era l’inquietante sensazione della ragazza che in seguito si trattenne dall’inseguirlo anche all’interno, avvedendosi che si trattava della redazione di un giornale.

Nei giorni seguenti, passò spesso di lì, sperando – chissà perché – di rivederlo. Il misterioso possessore di mani martoriate sembrava essere precipitato nel nulla, sparito come un parto della sua fantasia.

Che sia stata un’allucinazione?

Qualche mese dopo, quando la primavera faceva fremere i primi fiori nei giardini, attraversando un ponte affollato di gente concitata e vociante, vide un corpo a terra, coperto da un drappo grigio. Solo una mano usciva allo scoperto, arrossate le nocche, le unghie consumate fino alla matrice.

Un’auto pirata aveva distrutto il suo sogno vestito da incubo. (g.g.)

La cinese

La Cinese
Dicono che io sia un uomo ancora prestante, anche se la mezz’età mi ha portato via un po’ di capelli e diminuito le diottrie, ma mi consolo pensando che la calvizie oggi è à la page e lo sguardo “trasognato” piace alle donne. Quindi tutto okay, tutto a posto. E ne ho avuto conferma ieri sera, durante il  récital-concerto in memoria di Fabrizio De Andrè, il mio idolo, tenuto in un teatro di provincia, straripante di un pubblico composto, in carattere con la musica gioiosamente funebre di quel grande che sapeva parlare della morte con l’ apparente indifferenza di Guido Gozzano. Lo so che il paragone vi apparirà improprio, anche perché preceduto dall’ossimoro del “tenebrismo” illuminato dalla gioia, ma questo è quello che sento, quando suono e canto musica e parole del mio Faber.
Un concerto riuscito, insomma, quello di ieri e che mi ha fatto riassaporare piaceri antichi, intendo un tuffo nel passato, senza struggenti nostalgie; questa volta vi parlo di ritrovati flash di giovinezza, lievi perché sulle ali del ricordo, seppur scaldati da una folata di sensualità. Una situazione che sarebbe piaciuta al miglior Brancati, anche se il teatro dell’azione non era la Sicilia, ma la festosa Bologna di un trentennio fa. Lo so che sono lungo nei preamboli, ma i piaceri, anche solo ricordati, vanno gustati lentamente, devono sciogliersi in bocca come un bonbon, una chicca dai compositi sapori che la lingua trascina sul palato e non vorrebbe si sciogliesse troppo in fretta.
Ebbene – vi dicevo – una serata bella, anche per l’insperato incontro che mi ha regalato, quando, dal proscenio, avvicinandomi al pubblico, ho rivisto quegli occhi. Gli occhi della Cinese. La chiamavamo così, negli anni della mia adolescenza bolognese, quelli delle ore rubate alla scuola, delle prime monetine ingoiate dal jukebox, delle prime sigarette fumate di nascosto, dei primi fremiti del corpo che prende consapevolezza di sé.
Allora, quando la vedevamo passare per Via delle Rose, nei tiepidi pomeriggi d’aprile, l’aria si arroventava e il nostro fiato si faceva corto in maniera struggente. Prima c’era la fase dell’attesa, quando ancora non sapevamo se quel giorno sarebbe passata. Non era regolare e ripetitiva come un orologio. Avrebbe potuto esserci o non esserci. E se mancava per qualche giorno alla fila, almanaccavamo: «Che sia malata? Che si sia trasferita?» No, c’era sempre. Tornava. Aveva un passo – come dire? – liquido e altero nel contempo. Non invitava, eravamo noi che ci autoinvitavamo ad ammirarla, sboccati, lascivi, come solo può esserlo la ragazzaglia di quell’età; ma sempre inter nos nelle nostre esternazioni, non lasciandoci mai sfuggire nemmeno un fischio o una parola di troppo, protetti dalla vetrata del bar, dove lasciavamo la traccia umida dei nostri affannati respiri e l’essenza del nostro desiderio, mentre i suoi seni eretti parevano bucare la seta delle sue attillate camicette e lo sguardo obliquo delle sue intense pupille, trafiggeva i nostri turbamenti. 
Era il fascino fatto donna.
Era il nostro mito.
E ieri sera ho rivisto quegli occhi.
Non so se cammina ancora come una pantera.
Un po’ d’argento, un poco appena, ha illuminato i suoi capelli. Lo sguardo obliquo dei suoi occhi è sempre quello: trafigge ancora, perché il fascino non ha età.
Sissignori, e così mi consolo anch’io, sperando di restare “commestibile” nel tempo… 
Grazia Giordani

 

 

Tre donne in una visitate a turno dallo psichiatra

Tre donne in una visitate a turno dallo psichiatra

L’analisi della personalità multipla che ha fatto scuola in letteratura

Chi ha amato H. P. Lovecraft ne troverà eco nella scrittura di Shirley Jackson (1916-1965), l’americana di San Francisco che continuò la tradizione del romanzo gotico nero — massimo nel genere è E. A. Poe — quello che non ha bisogno di immagini cruente o di effetti speciali per insinuare inquietudine nel lettore. Stephen King ha apprezzato molto il suo stile raffinato ed elegante, ricco di suggestioni. Famosa soprattutto per The Haunting of Hill House (L’incubo di Hill House), ora Adelphi ripropone questa autrice di horror particolari con il romanzo Lizzie (318 pagine, 20 euro, traduzione di Laura Noulian), facendoci entrare nel mondo psichicamente sconvolto delle personalità multiple. Del resto, la stessa scrittrice, morta quarantottenne, vittima di nevrosi e disturbi psicosomatici, aveva nei propri pensieri inquieti abbondante materia da trasferire nelle sue pagine, con risultati letterariamente persuasivi.
La protagonista di Lizzie, Elisabeth Richmond, una scialba ventitreenne, amorfa, passiva che sembra in attesa di «aspettare la propria dipartita stando il meno male possibile», nasconde sotto un’apparente tranquillità un disagio allarmante, fatto di emicranie, malesseri e amnesie. Uno stato ansioso, dentro i cui sviluppi l’estro della Jackson ci conduce con penna insinuante e pause sapienti che solleticano la curiosità. Elisabeth, per esempio, riceve lettere offensive che, invece di preoccuparla, la rallegrano e che conserva gelosamente, quale attestato del suo esistere, del suo esserci. Il lettore scafato non tarderà a capire che la giovane, sotto altra personalità, scrive a se stessa. Provvidenziale l’intervento del dottor Wright, che, servendosi dell’ipnosi, rivelerà la presenza delle personalità multiple che convivono nell’animo dell’apparente scialba ragazza.
Con rigore scientifico, il medico prende nota di successi e insuccessi. «Avevo già conosciuto tre diverse personalità di Miss R», scrive. «C’era R 1, nervosa, afflitta da dolori lancinanti, torturata dalla paura, oppressa dall’imbarazzo, modesta, chiusa e riservata fino alla paralisi verbale. C’era R2, che forse aveva il carattere di Miss R graziosa e rilassata, senza le rughe d’ansia che solcavano il viso della prima¸ e poi c’era R3 che, in un certo senso era R2 all’eccesso, sfrenata insolente, dozzinale e chiassosa». Prendendo sempre più confidenza con la sua plurisdoppiata paziente, il coscienzioso dottore finirà col chiamarla/le per nome. Così avremo la timida Elizabeth, l’amabile e socievole Beth e il suo negativo fotografico Betsy che vorrebbe distruggere le altre due. Il medico capisce in fretta che tutto è nato da uno choc. Come è morta la madre della ragazza? Il lettore lo capirà verso la fine, apprezzando anche il senso dell’umorismo dell’autrice che vena spesso la bizzosa pagina e trovando divertenti personaggi di contorno come la zia Morgen e gli amici Arrows. Soprattutto, sarà d’obbligo complimentarsi con l’acuto Wilson.

Grazia Giordani