Archive for gennaio 2014

Miss gambe

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Questo è l’ultimo episodio che mi ha narrato l’’avvocatone” di cui ormai sapete molte cose, quello deluso da Patrizia e che a sua volta aveva deluso Rita (il mondo è una vera girandola di delusioni a catena!), quello che mi raccontava spicchi della sua vita erotica obtorto collo, non del tutto persuaso che ne avrei tratto qualcosa di buono. «So bene – mi diceva – che lei continua ad essere scettica riguardo alla verità di quanto le vado raccontando, ma le giuro che questa è solo una parte della mia vita professionale ed amorosa, spesso mescolate insieme. Intorno agli anni Sessanta, per conto della SIAE, ero in giuria del premio Miss gambe. Non c’è niente da ridere! Se fa così, non continuo il racconto. Bene. Eravamo nel pieno dell’estate. La manifestazione era tenuta all’aperto. Nell’aria navigavano profumi di fiori, disposti per abbellire i tavoli collocati nel parco, misti agli aromi forti di drink speziati, ma era soprattutto l’odore di donna che spiccava fra tutti, uno strano cocktail di sesso e miele – e non faccia quella faccia, suvvia, sembra un’educanda! – che solo voi sapete emanare. (Comunque penso che questa non sappia di nulla, è arcigna e provinciale, non so nemmeno perché io le stia regalo queste chicche…). Presi posto fra i giurati. L’occhio di bue illuminò una ad una le candidate al premio che avevano il volto coperto da un drappo nero, quasi fossero condannate al patibolo. Indossavano vesti succinte, le gambe esposte in netta evidenza». «Perché il volto nascosto?» « (questa l’ ho detto io che capisce poco…) È chiaro – Signora – per non influenzare la giuria, sedotta da un bel visino, a discapito delle gambe!» «Un rullo di tamburi elettrizzò l’aria già calda di desideri. Iniziai ad esaminate gli steli di quei bellissimi fiori-donna con la massima attenzione. Cosce lunghe sovrastavano ginocchia ben modellate, posizionate sopra polpacci alti in maniera sufficiente da permettere alla caviglia di mostrare tutta la sua snellezza. Non vi erano calze, né artifizi adatti a mascherare difetti. Eppure, io cercavo gambe che fossero anche “espressive”, non solo perfette. Adesso lei mi obietterà che solo i volti possono avere espressione, ma non è vero. Ci sono mani che parlano, che esprimono sentimenti non solo nel gestire, ma anche nella forma piatta o bombata delle unghie, nell’attaccatura al polso, nel modi di piegare le falangi; ci sono glutei che mi fanno impazzire per certa loro rotondità sinuosa, sensualissima. Ma ritorniamo alle gambe…
«Torniamo alle gambe – dicevo. Cercavo gambe che mi parlassero, che “chiamassero” che mi… E poi con lei non si può parlar chiaro come facevo con Bevilacqua – altro “degustatore”! – o con la Maraini che non è certo bigotta. Lei sta lì, appollaiata sul sedile, Signora-guardatemi-ma-non-toccatemi, e col suo fare asessuato – mi perdoni – mi toglie tutta l’ispirazione…» «Siora – si intromette la voce dell’autista, in sordina – non la staga mia darghe retta, ‘sto qua el xe n’avocato che no me farìa defendare gnanca sa avesse robà solo do gaine…» «E, finalmente le vidi: appartenevano alla penultima concorrente in fondo alla fila». «Manco mae, chissà che ‘l la pianta de rompare, ciò!» «Le assaporai piano, godendomi la rotonda perfezione dei talloni che posavano su tacchi a spillo color oro brunito di deliziosi sandaletti, percorrendo quindi tutto il dorso nervoso di quel piedini perfetti, snelli senza essere scarniti, arcuati in maniera deliziosa, e giunsi alla grazia curvilinea del polpaccio morbido e compatto; ebbi un sussulto arrivando al ginocchio, e tenni per ultima la coscia fasciata dalla seta naturale di quella candida, trasparentissima pelle, perdendomi poi nella chiusa magia di quell’inguine… E mi incaponii perché il premio fosse dato a lei. Quando le tolsero il drappo dal viso, mi persuasi che le gambe continuavano ad essere la parte migliore di quella Edelweiss (che strano nome!), una ballerinetta da quattro soldi, molto ben fatta, ma con lineamenti troppo risentiti. Qualcuno le disse che il mio voto era stato decisivo. Mi ringraziò con un sorriso esagerato, un po’ troppo servile, chiedendomi poi il mio indirizzo». La narrazione dell’avvocato si faceva sempre più lenta, perso nei suoi nostalgici ricordi, quell’anziano signore sembrava parlare soprattutto per se stesso. Si stava raccontando una piccante vicenda con dovizia di particolari. «L’indomani comparve allo studio, abbigliata con abiti troppo stretti, tacchi troppo alti e troppo profumo dozzinale indosso. Tutto troppo, solo le gambe erano poche, perché di gambe così vorremmo vederne in numero infinito». «Ciò, el voea un millepiedi ‘sto vecio qua!». «Accettò subito un invito a cena, ben consapevole e speranzosa del dopocena. Ma non volevo portarla a casa mia. Sullo stesso pianerottolo abitava ancora mia madre. Non volevo “sporcare “ lo studio, ancora pieno delle ore trascorse con Patrizia. Mi venne in mente che un mio amico scapolo e gaudente pari mio, mi aveva proposto l’uso della sua garçonnière, raccomandandosi di mettere un apposito segnale sulla porta d’ingresso, per far vedere che il locale era occupato». «Come La Dame aux camélias quando metteva nel risvolto del colletto una camelia rossa per indicare che era giunta in “certi giorni” del mese?» « (Allora non è sprovveduta come sembra – questa – non legge solo “Famiglia cristiana”, sembra conoscere anche Dumas). Sì, proprio così, Signora, un segnale convenuto, onde non creare incontri sgraditi ed imbarazzanti» «E allora?» «Approfitto del momento di sosta per scendere a fumare una sigaretta». «Ma davero la scriverà de ‘sta storia? La pare tuta inventà…» Le ombre della sera stavano velando il paesaggio che aveva ripreso a saettare, visto attraverso i vetri in corsa. Scampoli di giardini precedevano o seguivano case piatte, impersonali e i viaggiatori del pullman, seduti attorno a noi, attendeva il resto del racconto. «Cenammo in fretta. Per farle colpo la portai in un locale lussuoso, pentendomi subito della scelta: teneva male le posate in mano e masticava a bocca aperta, sbrodolandosi il mento. Andammo diretti nell’appartamentino compiacente dell’amico. Misi alla porta il segnale convenuto, senza curarmi, per la fretta, se fosse stato fissato con la dovuta cura. E…» «… ed entrarono all’improvviso – cogliendoci già mezzo spogliati – l’amico in compagnia di una ragazza minuta, di aspetto molto delicato, in netto contrasto con la mia Miss, quella Edelweiss felicemente “gambuta” di cui già molto conoscete. Non sapevo se ridere o piangere. Franco, l’amico, invece di scusarsi, o andarsene alla chetichella, come avrei fatto io al posto suo, si sedette disinvoltamente sul letto, aumentando il mio imbarazzo. La mia compagna si sedette a sua volta, solo la piccola restò in piedi, accostata al muro, silenziosa e immobile, come se fosse in uno stato di attesa. E così, non ostante la situazione, a dir poco grottesca, ebbi modo di osservarla. Già sapete quanto io sia «curioso delle donne». Efebica, la sua figuretta sottile, sembrava nuotare dentro delle salopette di un color liquirizia, in strano accordo cromatico col suo sguardo, reso obliquo dal taglio orientale degli occhi. Nasino minimo, bocca gentile, pelle chiarissima. Nulla di procace, eppure dotata del fascino acerbo che hanno le rose di macchia ancora in boccio, quelle che vorremmo non sfiorissero mai». «Te po’ figurarte se intanto che i jera in mutande pronti a…quelo el se mete a osservare la magreta e i so oci e la so pele e le rose sbocià e da sbociare…» «E così le è sfumata l’occasione di “giocare” con Miss gambe?» «Se fosse andata solo così, sarebbe niente. Ma, al solito mi interrompe, non ha pazienza, vuol correre alle conclusioni. Mira ai fatti, non è attenta alle sfumature, ai passaggi psicologici sottili, ai miei stati d’animo. Non è attenta alle descrizioni dell’ambiente. Mi ha chiesto com’era la stanza? Com’eravamo vestiti? Mi rivolge domande insignificanti…Ma riprendiamo il filo da lei inutilmente interrotto. La piccola – che si chiamava Silvia – un nome adatto a lei, odoroso di bosco intatto, di erbe selvatiche, di viole nascoste, continuava a guardare la scena, ora sorridendo piano, in maniera “leonardesca”, impercettibile. Sollecitata da Edelweiss, si avvicinò timidamente. Franco aprì un mobiletto, estrasse bicchieri e bottiglia e gridò. “Brindiamo, brindiamo all’amore, all’amicizia, alla gioia dello stare insieme!”». «El gavèa un bel corajo par altro, dopo che ‘l jera vegnù a romparghe…» «Bevemmo, parlammo. L’amico accese lo stereo. Edelweiss si mise a ballare in maniera sempre più sfrenata, dimenandosi come un’ossessa, denudandosi senza pudore. Sembrava una baccante. Silvia la guardava incantata, attratta da quella femminilità aggressiva, irruenta, scalmanata, trasudante eros e afrore di carne surriscaldata. La guardava come se fosse a teatro e stesse assistendo ad uno spettacolo che l’andava infiammando. Dove l’aveva pescata Franco? Seppi poi che era figlia di vicini di casa. Che strano vicinato! «Inaspettatamente, finito quell’improvviso baccanale, le due ragazze uscirono dalla stanza, come se un cenno a noi sfuggito, le avesse legate, fatalmente, all’improvviso». «E così lei è andato in bianco?» «Non sia inesorabile, Signora!»

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

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Una bizzarra posta di gioco

Una bizzarra posta di gioco

Quell’avvocato di cui già sapete è stato una vera miniera di ispirazioni.
«Dai mie ricordi hanno tratto a piene mai Bevilacqua e la Maraini, oltre a tanti altri, quindi se scriverà qualcosa anche lei, poco male (sempre che questa sia in grado di farlo, mah ho i miei dubbi); vista la considerazione in cui la tengono gli amici, penso che lei sia una, una…»
«… una cornacchia?»
« Signora, cosa dice, non mi permetterei mai (che mi legga nel pensiero, questa?)»
«Lo so che quanto le racconto le sembra frutto di fantasia, ma le giuro che è tutto vero. Lei vive in provincia (chissà che posto sarà mai quel Polesine) e quindi, trascorrendo i suoi giorni in un luogo tanto sereno e tranquillo, fatica ad immaginare le storture e le aberrazioni di certa gente di città.
«Dunque, una bella mattina (a quell’epoca la Patrizia lavorava con me e la Rita non aveva ancora scoperto nulla) mi capita in studio una signora sulla quarantina. Un tipo elegante, sofisticata, vestita con classe, profumo giusto, accessori intonati. Sono un uomo che guarda a tutto; le donne le annuso quasi, le sento a naso, insomma».
«Come fossero tartufi?»
«Se mi interrompe sempre, perdo il filo e non riesco più a raccontarle. Dove eravamo rimasti?»
«Alla signora “annusata”».
Rassegnato alle mie interruzioni, l’avvocato, guardando fuori dal finestrino con occhio opacizzato dalle visioni di vita lontana, prosegue a raccontare la bizzarra vicenda di questa cliente, sposata a un professionista, malato terminale di un’orribile malattia. La moglie vorrebbe liberarsene, in quanto innamorata cotta di un giovane «squattrinato, ma tanto sensuale ed affettuoso», con cui spererebbe di rifarsi una vita e soprattutto vendicarsi del fatto che – quando il marito era nel pieno delle forze e della salute -, accanito giocatore di poker, la usava come posta di gioco. Se perdeva la partita, la costringeva ad amplessi forzati con il vincitore che acconsentiva a questo perverso accordo.
«Pochi giorni dopo, mi capita nello studio un uomo emaciato, col respiro corto. Lo faccio sedere, premurosamente, e – prima ancora che mi esponga il caso -, capisco subito che è il pokerista dalle strampalate abitudini».
«Sono disposto a qualsiasi compromesso – mi sussurra -, ma non voglio morire “separato”. Mi aiuti a convincere mia moglie a un ultimo poker, prima della mia fine».
«A quelle parole, mi sembrava di vivere dentro un romanzo scritto da una penna alienata. Avevo proprio la faccia che fa lei, Signora, la sua stessa espressione divisa tra meraviglia e disgusto -, e sì che ne ho viste di stramberie ed aberrazioni nella mia vita…»
Un camion che ci superava in corsa mi fece perdere le ultime parole del narratore.
«Come?»
«Dicevo che – impietosito – mi rivolsi alla moglie che, freddamente e contro ogni mia aspettativa, acconsentì sotto condizione che assistessi anch’io alla partita. «Veramente avrei preferito presenziare al “dopo partita”, perché non amo il gioco. Ma non seppi sottrarmi.
«La sera seguente, fui accolto in una lussuosa mansarda in una centralissima via della mia città. Un ascensore silenzioso, che sembrava volare sulla seta, mi condusse direttamente in casa da questa strana gente e quindi in un boudoir pieno di cineserie e abatjour ornate da frange che proiettavano irreali cerchi di luce sul tavolo verde.
La partita fu brevissima.
Sembrava che il marito volutamente desiderasse di perdere.
La moglie si allontanò col vincitore sottobraccio.
Con l’animo di chi ha vissuto un incubo, mi diressi all’ascensore.
Nel chiudere la porta, udii il fragore di uno sparo.

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

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L’avvocato a luci rosse


L’avvocato a luci rosse

In occasione di un mio breve viaggio, ho conosciuto un avvocato “a luci rosse”, un anziano uomo di legge, amico di politici che contano, di nobili romani dal blasone altisonante, di scrittori alla moda, frequentatore dei salotti più ambiti, assertore di aver ispirato scrittori nazionali con i suoi pruriginosi racconti.
«Per lei ho qualcosa di inedito – mi ha assicurato – qualcosa di molto pepato. Prenda nota».
Incurante della stretta verità o delle visionarie “aggiunte” in quanto mi narrava, ho scritto di conseguenza, sull’onda dei ricordi di un personaggio che pare uscito dalle pagine di un romanzo di Moravia.

Senza saliva

Era uno di quei giorni scivolosi, in cui l’aria è così imbevuta di umidità, da rendere viscidi i tuoi passi, i vestiti, e – persino – i tuoi pensieri più nascosti. L’autunno stava dimenticandosi dell’estate, già dall’inizio, smemorato in maniera fastidiosa. La scala del tribunale mi apparve insidiosa più che mai, tanto da salirla cautamente, ben aggrappato alla ringhiera.
La porta della segreteria si aprì, quasi per incanto, mossa da una forza intima, come se la mano dell’uomo non vi prendesse parte alcuna. Solite scartoffie sul bancone e nelle scansie, aria ferma, acre di troppi respiri, computer accesi, tastiere percosse da dita rassegnate di segretarie già stanche.
Dal tavolo in fondo, quello meno in vista, scostando la seggiola senza rumore, si materializzò una visione divina. Alta quasi quanto me – che sono già un uomo di imponente statura – bionda e burrosa come la Marini, mi venne incontro un’irresistibile ragazza. Adoro le donne con gli occhi chiari, la pelle di miele e le curve posizionate giuste.
Dopo avermi consegnato gli incartamenti richiesti, accettò – con estrema naturalezza – il mio invito a bere un aperitivo.
Le scale non mi apparvero più così insidiose, scendendole al suo fianco, fiero di farmi vedere in compagnia di un così procace esemplare femminile.

Accettai subito l’invito all’aperitivo offertomi da quell’avvocato imponente, grave nei gesti lenti ed antichi, perché mi sentivo sola, perché mi appariva un uomo importante, perché speravo in un po’ di protezione…
Sì, mi parve un tipo protettivo. Di lui sapevo già molto: professionista stimato; studio legale in una centralissima via della città gaudente per definizione, in cui si alternavano impiegate e colleghe sempre molto piacenti, bionde e prosperose; nessuna attitudine al matrimonio; generosità “controllata”, ovvero dare in proporzione di quanto si poteva ottenere, mai una lira di più; modi distinti da vecchio gentleman, pur essendo appena di poco oltre la cinquantina; abbigliamento curato fino nei minimi dettagli; fama di viveur incallito; frequentatore dei salotti più in vista.

La guardai comodamente seduta, all’interno di un caffè centrale della mia vivace città. La volli dirimpetto, per ammirarla bene. Nella penombra autunnale, il candore del suo volto sembrava brillare, tagliato dal carminio di una bocca perfetta, rossa come il frutto del peccato e già offerta. Tutto in lei era offerto sin dal principio. Le sue gambe tropo accavallate che lasciavano già vedere più che intuire l’avorio chiaro della sua corsetteria; la scollatura senza segreti da cui debordava un’abbondanza succosa che già mi rendeva affannoso il respiro.
Tutto questo cerco ora di narrarlo – vent’anni dopo l’accaduto – a una scrittrice ingorda delle mie confidenze, ingolosita dal fatto che Bevilacqua, ispirandosi alla mia vita galante (veramente da lui definita da erotomane) ha intitolato un suo romanzo Il curioso delle donne e dall’aver letto un episodio piccante in un altro celebre romanzo della Maraini che riprende un mio amore “alla finestra”, insomma un’esibizione a distanza, con una mia permissiva dirimpettaia.
Rita, la bionda così si chiamava e si chiama, ha accettato subito l’invito a salire nello studio, poco distante dal tribunale. Era un gusto osservarla: la coscia sembrava voler uscire dal tessuto della gonna che già faticava a contenere quei glutei perfetti, e il seno sussultava, partecipe ad ogni scalino.

Sono arrivata su, in cima alla scala (l’ascensore era in manutenzione) un po’ sconvolta da tutto quel forzato ancheggiare e da quel dimenarmi per attrarre l’attenzione di un uomo famoso per i suoi gusti in fatto di donne compiacenti. I guadagni modesti e il desiderio di piantarla con la mia vita da pendolare, mi spingevano a forzargli la mano, per ottenere subito il massimo da lui. Averlo per protettore era una fortuna grande per me, in quel momento.
Lo studio mi apparve molto lussuoso e nel contempo cupo.
«Sarò il tuo mentore» – mi disse con voce arrochita – ponendomi subito le mani addosso. E, del resto, ero lì per quello e, al di là dell’interesse venale, quell’uomo mi attraeva, c’era qualcosa di “incestuoso”, nella nostra situazione, che accendeva la mia fantasia già naturalmente propensa al sesso, conosciuto in età tenerissima. Mai mi sono sottratta agli uomini che mi hanno toccata, un po’ per reale desiderio e un po’ – lo credereste? – per pena nei loro confronti. Tutto quell’ansimare me li ha fatti apparire fragili, ansiosi di arrivare in fondo, impauriti dal non riuscirci nel migliore dei modi.

La faccia della scrittrice, mentre le narro le mie storie di sesso, non mi piace per nulla. La sento commentare in sordina col marito, schifato dalle mie avventure. «Ma veramente vorrai scriverne? Non è il tuo genere…»
Il divano ci accolse, materno, in quegli anni in cui ero così vivo naturalmente. Tutto si svolse in maniera troppo facile e troppo rapida. Non trovai in Rita nessun pudore, nessuna resistenza, solo gemiti ed eccessiva collaborazione.
Non mi era mai capitata una donna così consenziente. Era chiaro che voleva sistemarsi e nel contempo che il sesso le piaceva e che io le piacevo.
«Dove abiti?»
«Vengo ogni mattina in treno e riparto nel pomeriggio»
Le offersi un alloggio e, dopo un mese, le comperai un’utilitaria, non bisogna mai dare troppo.
Una mano perentoria bussò alla porta del mio studio.
«Avanti!» – dissi con voce seccata. Detesto gli arroganti, perché io sono un mite.
Entrò una ragazza sotto la trentina, alta, snella, addirittura filiforme, insomma l’esatto contrario del mio ideale femminile, per di più con i capelli cortissimi, mentre io adoro le chiome lunghe e bionde, ma questo lo sapete già e lo vado ora ripetendo alla scrittrice che sta prendendo appunti e che non mi è affatto simpatica, con quella sua aria sussiegosa e con quel ridacchiare col marito.
Provinciali, che non credono alle telefonate del principe Colonna che mi sta chiamando sul cellulare per un defilè in casa sua e sono dubbiosi sul fatto che io abbia ispirato Bevilacqua e la Maraini.
Gli occhi – solo quelli – mi colpirono della ragazza efebica e sorridente sulla soglia del mio studio. Quello sguardo caffè forte mi procurò un turbamento nuovo.
«Avvocato, ho appena ottenuto il titolo, non ho danaro né amicizie per aprirmi uno studio. Mi aiuta?»
«Posso darti due milioni al mese e aiutarti a trovare un alloggio».
Offrivo basso, perché, strette dalla necessità, so bene che le donne diventano più – ehm, ehm – più donative.
Provai a metterle la mano su una spalla, ma lei si scostò con uno scatto poco lusinghiero.
Arrivò Rita, ancheggiando al suo solito modo, anzi più che mai. Accostate, le due ragazze, creavano uno stuzzicante contrasto.
Col passare dei giorni, Patrizia cominciò lievemente ad ammorbidirsi.
Però, sentite in che modo.
«Ho visto un tailleur delizioso, ieri in galleria. Ma non potrò mai permettermelo».
«Andiamo a vederlo insieme».
Addosso alla sua figurina era uno spettacolo. Stavo cambiando gusti e la sua magrezza stava diventando più eccitante delle grazie sinuose della bionda maggiorata.
«E le ha “frequentate” tutte e due in contemporanea?» – la scrittrice provincialotta che non sa capire le gioie di un viveur.
Altroché se le ho frequentate, godendo appieno le gioie complete e un po’ appiccicose di Rita e spasimando per Patrizia che mi si dava col contagocce.
Non voleva che io salissi nell’alloggio che le stavo pagando in un centralissimo appartamento; non voleva salire a casa mia (perché lì ricevi già Rita e sentirei la sua presenza). Quel poco che mi dava avveniva solo nello studio. Dopo una mia “dazione” (cappottini, tailleurini, tette ingrandite dal chirurgo, abbonamenti a teatro, per cui tenevo minuziosamente segnate le spese, sono un uomo estremamente ordinato nei conti), quando chiudeva le finestre e abbassava le tende, lasciandomi intendere che qualcosa sarebbe avvenuto, il mio cuore batteva all’impazzata e l’eccitazione era così forte…
«No, non tema signora!» – lo dico alla giornalista che paventa particolari troppo piccanti.
E qualcosa avveniva, ma sempre parziale, con un progredire al passo di tartaruga.
Non voleva essere baciata in bocca. Temeva la mia lingua più di un orrido serpente. Se tentavo di umettare le parti più intime del suo corpo, urlava, indignata.: «Mi raccomando, senza saliva!»
«Ma lei, non arguiva da questo l’assenza non dico d’amore, ma almeno di interesse, di affetto, non sentiva il ribrezzo di Patrizia?»
«Signora è mai stata innamorata? Ha mai perso la testa, lei?»

Che strazio dover dare sempre di più al “vecchio” che non è un cattivo diavolaccio, ma che mi attrae come un calcio negli stinchi.
Adesso vuole regalarmi l’appartamento, e capisco che lo fa per avere “tutto” da me.
Non si contenta più delle “coccole”, così ha il coraggio di chiamare quei suoi leccamenti bavosi. Parla persino di co-intestarmi nel suo conto corrente, «comprese le azioni di borsa», aggiunge quasi lacrimando. Ogni volta che mi fa un regalo, annota scrupolosamente l’importo in un suo libricino nero e a fianco mette una sigla, corrispettiva ai progressi ottenuti da me. E’ un maniaco. Perché non si contenta della Rita che gli muore dietro, sculettando come una trottola e che gliela darebbe anche gratis? Però, se così fosse, non avrei le belle cosine e ormai cosone che mi regala a piene mani. A volte si eccita talmente, che ho quasi paura che mi resti lì, un cadavere eccellente da non poter più spennare.

Ieri l’ho portata con me in banca a firmare. Ora può disporre degli assegni a suo piacimento. Quello che è mio è suo. Spero accetti di sposarmi. Senza di lei la mia vita è inutile. Anche Rita, scoperta la mia eccessiva generosità («e pensare che io non ti ho mai chiesto nulla e ho accettato solo l’utilitaria su tua insistenza e stavo con te perché mi piacevi e ti amavo e quell’avida sarà la tua rovina e bla bla bla), trovato il famoso libretto nero fra le mie carte, ora mi ha lasciato.

Sposarlo? Oddio, piuttosto rinuncio a tutto. Tanto, ormai, più di quello che mi ha dato, cosa potrebbe ancora offrirmi? Di suo gli resta solo lo studio, quella maledetta garçonnière, dove mi obbliga a subirlo.

Invece di essere più affettuosa e carina, dopo che le avevo elargito ogni mio avere – su mia insistenza devo ammettere – la vedevo raffreddata, elusiva, distante, meno propensa a tirare le tende dello studio, antipasto delle “coccole”. Smanettava nervosamente col telefonino, si agitava per nulla, non si faceva trovare.
Decisi di piazzarmi sotto casa sua, stando in vedetta.
Uno sportivo, un calciatore importante che anni prima io stesso le avevo presentato, in quanto mio cliente, scese dalla scala di casa sua, un po’ spettinato, a dire il vero.
«Avvocato – interloquì il barman che mi conosceva da sempre – da tempo avrei voluto dirglielo, ma la Patrizia vede quel signore del pallone ormai da tre anni».
Mi si annebbiò la vista.
Non ricordo nemmeno come feci a salire quella rampa di scale fino al suo appartamento. L’aggredii con un’ira omicida.
In un ultimo gesto di schifo l’«efebica» mi rese tutti gli incartamenti, i contratti, gli accordi venali. Non le importava più di nulla. Mi lanciò dietro i sui tailleurini, cappotti, profumi, bracialettini e ninnoli vari. Certo le tette e i denti rifatti non poteva restituirmeli, quelli no! Urlava come un’ossessa, gli occhi fuori dalle orbite, le vene del collo grosse come serpenti.
E in un ultimo rantolo pieno d’odio, farfugliava: «senza saliva – dovevi farlo – senza saliva, maledetto!»
E ora sono solo. Rita mi ha lasciato. Patrizia ha cambiato casa e vive col calciatore in un’altra città.
«Come fa a continuare a rimpiangerla? Non riesce a fare appello alla sua dignità?»
«Signora, ma lei si è mai innamorata?»

E nel dire questo, scese dal pullman, strascicando i passi e tirandosi appresso la sua valigetta, piena soltanto di ricordi, di tanta solitudine e di umiliato dolore, non prima però di avere estratto un ampio fazzoletto per asciugare agli angoli del labbro un lucido flusso di saliva.

La casa trasparente

  Anatomia del lutto Diario di donna per sopravvivere

Sofferto romanzo autobiografico per l’esordio di Sabina Spada

Sabina Spada

Sabina Spada

Il lutto dopo il dolore: si cimenta sul tema l’esordiente Sabina Spada nel romanzo La casa trasparente (Cairo, 186 pagine, 13 euro). Argomento non nuovo alla letteratura, basterebbe pensare al recente Il tempo tagliato di Silvia Longo (Longanesi), o al Diario di un dolore (Adelphi) di C.S. Lewis, dove è un marito a soffrire per la perdita della moglie e a registrare i movimenti dell’anima con una lucidità sconvolgente. Ancora un esempio del medesimo tema, affrontato in maniera personale e differente, ci viene da Parlare da soli di Andrés Neuman (Ponte alle Grazie), dove la protagonista deve affrontare lo stesso lancinante dolore, ma riesce ancora ad amare e a provare nuovi piaceri tra le braccia di un amante che diventa l’antidoto alla sua sofferenza.
La giornalista Sabina Spada, attualmente impegnata nella redazione di Intimità, collaboratrice del mensile Arte, è la vedova del critico Maurizio Sciaccaluga, stroncato da un infarto, appena quarantatreenne, nel 2007, personaggio assai noto nel mondo artistico, consulente per l’arte contemporanea di Vittorio Sgarbi, docente all’Accademia di Brera. Cambiando i nomi dei personaggi, poiché la protagonista femminile non si chiamerà Sabina, ma Ilaria, e Maurizio prenderà il nome di Paolo, l’autrice attinge dolorosamente a fatti personali. La casa trasparente è una citazione dalla poesia Se muoio sopravvivimi di Pablo Neruda: «Non voglio che vacillino il tuo riso o i tuoi passi, non voglio che muoia la mia eredità d’allegria, non bussare al mio petto, sono assente. Vivi in mia assenza come in una casa…. È una casa così trasparente l’assenza che senza vita io ti vedrò vivere e se soffri, amore mio, morirò nuovamente». Amaro risveglio, quello d’Ilaria, nella calura di un mattino estivo, in cui Paolo muore straziato d’infarto, realisticamente descritto dalla giovane moglie che resta con una piccola bimba da crescere, prodigandosi con cuore intelligente a non traumatizzarla, entrando nel suo mondo infantile in cui la morte si colora quasi di magia, perché è un altrove che potrebbe essere posizionato sopra una stella. Ilasia ricorda segni premonitori: un quadro che si rompe prima della morte del marito, il bagliore rosso… Paolo, con vis visionaria dell’autrice, riappare spesso ed è forse questa sua assenza/presenza che potrà preservarla da «errori di sintassi emotiva». La giovane vedova reagisce alla depressione, ognuno ha un suo modo personale di elaborare il lutto, continuando ad avere cura di sé e del suo aspetto estetico, incontrando anche quarantenni poco raccomandabili che farebbe meglio a tenere alla larga, il tutto scritto con penna molto sentimentale.
Al di fuori della realtà romanzesca, a chi chiede all’autrice come ha reagito alla morte del marito, Sabina Spada risponde di «aver guardato il dolore negli occhi, analizzandolo con una lentezza esasperante, invece di nasconderlo sotto una cappa di silenzio. Mi sono scoperta forte nell’ attraversare le cose che dovevo vivere».
Grazia Giordani

Una preziosa casa editrice

In un momento storico come il nostro, in cui l’idea del guadagno venale, sembra oscurare – da parte di troppe case editrici – l’elevata qualità intellettuale del prodotto, scoprire piccoli libri tanto minuscoli nella mole, quanto preziosi nei contenuti e nel modo di proporsi, per chi ama ancora il cartaceo raffinato, è un gioioso sollievo.

Nella fattispecie ci riferiamo alla casa editrice ‹‹via del vento›› che prende il nome dalla storica via di Pistoia in cui hanno abitato scrittori e poeti, da Gianna Manzini e Pietro Bigongiari e che dal 1991 pubblica testi inediti o rari di grandi scrittori e artisti italiani o stranieri del Novecento. Pagine per bibliofili, gente dal palato sottile che Fabrizio Zollo, pittore e raffinato cultore delle espressioni letterarie nazionali ed internazionali, da più di un ventennio dirige con colta passione. Negli anni, questo direttore editoriale d’eccezione ha saputo convogliare molte energie creative nell’alveo di questa avventura, ritagliandosi uno spazio privilegiato all’interno del panorama nostrano e straniero.

‹‹via del vento››, volutamente orfano di lettera maiuscola, con le sue quattro collane quadrimestrali ‹‹Ocra gialla›› e ‹‹Quaderni di via del vento››, per la prosa, ‹‹Acquamarina›› pe la poesia straniera e ‹‹Le Streghe›› per artisti e letterati pistoiesi di nascita o di adozione o che a Pistoia hanno trovato ospitalità, con stimoli alla loro opera, ha all’attività un catalogo che conta quasi duecento titoli e rappresenta una realtà molto apprezzata nell’ambito dell’editoria di qualità.

E di qualità ci appaiono appunto i due freschi di stampa: L’incantatore e altre prose di Joseph Roth e L’inizio e la fine di Irène Némirovsky.

In quanto a L’incantatore di Joseph Roth,  (Ocra Gialla, pp. 35 euro 4, a cura di Claudia Ciardi che lo ha tradotto con Katharina Majer),  primo a parlarci in Italia di questo originale autore galiziano è stato Roberto Calasso che riprende l’argomento nel suo impareggiabile L’impronta dell’editore (Adelphi) in cui  sottolinea, fra l’altro, la quasi omonimia – e la confusione che può esserne derivata – con l’americano Philip Roth;  inoltre, come ‹‹il successo, la vera moda di Joseph Roth in Italia erano dovuti non solo al riconoscimento della sua trascinante malia di narratore, ma al fatto che intorno a lui continuavano a disporsi gli astri della costellazione viennese ››.

Di grande interesse, la postfazione della curatrice Claudia Ciardi, in chiusura de L’incantatore e degli altri  brevi inediti in Italia di Joseph Roth, dove pone in luce come gli otto racconti narrino figure e situazioni marginali, quasi accessorie, esseri senza rilevante peso storico che sembrano costeggiare in punta di piedi la vita, invece di viverla alla grande. ‹‹La parabola del galiziano Roth, figlio orientale dell’impero asburgico ebreo, nato nell’est Europa, insofferente al provincialismo e alla lentezza ciclica della vita, viaggerà senza posa, in fuga da quello che nonostante tutto, sarà un centro radiale, guardato con inquietudine, ma attorno al quale si stringeranno anche tutti i principali motivi della sua opera››.

In un momento in cui Irène Némirovsky è in pieno revival, anche il secondo mini volumetto L’inizio e la fine (iquadernidiviadelvento, pp.35, euro 4, a cura di Antonio Castronuovo) è degno della nostra attenzione, perché è un inedito in Italia, uscito in Francia nel 1935, proprio quando Irène aveva terminato di pubblicare a puntate il suo romanzo Jezabel, il cui tema è strettamente legato a quello del racconto, laboratorio del romanzo stesso.

Sperando di poter leggere presto volumetti di tanto pregio editoriale, sottolineiamo come siano in ridotta tiratura e rigorosamente numerati. La rarità, nella raffinatezza,  deve sapersi far rispettare.

Grazia Giordani

Ombra

OMBRA

La tinta polvere di cielo e mare mi parve un colore letterario, soltanto pensato per scriverne adesso; invece stavo “vivendola” in quel momento, proprio mentre stavo camminando a fianco del mio anziano amico. E fu lì – in quell’istante – che ebbi anche piena consapevolezza della vecchiaia di Sandro: camminava con passo greve, lasciando orme profonde lungo il bagnasciuga, mentre con mano lenta, chiazzata di efelidi che sembravano piccoli schizzi di caffè, cercava di togliersi da un occhio un cernecchio ispido, rivolgendomi a tratti, uno sguardo opaco, di persona che non ha più troppe curiosità, che guarda la vita attraverso un filtro che ne sfumi i contorni.

Soffocò dentro un aspro colpo di tosse l’inizio di un discorso che si perse nell’acciaio del mare. Riprese la parola sogguardandomi di profilo, come se non volesse esporsi ad un rapporto troppo diretto, quasi parlasse a se stesso, impaurito dalle emozioni.
“Perché mi chiedi sempre di Lorernzo? Sai bene che è stato il mio partner privilegiato di disquisizioni intellettuali, di sogni giovanili. Una specie di alter ego per spirituali affinità elettive; un amico di rara intelligenza e di rarissimo cuore. Cosa ti spinge a tanta insistente curiosità?”
“Sei dunque così egoista da non voler dividere, nemmeno virtualmente, con me il privilegio di tanto eccezionale amicizia? O meglio – mi correggo -, il ricordo di un sentimento tanto grande ed irripetibile? Non ho mai conosciuto nessuno di tanto speciale, artista dell’idea, poeta e pittore inquietante e quindi non vedo nulla di male nel fatto che mi piaccia un poco sognare sui vostri dialoghi giovanili, sul vostro parlare di letteratura e filosofia. Avrei voluto vedervi, non solo immaginarvi, quando anche voi, come Gottfried Benn, sognavate il grande autore dello Zarathustra, al punto da non poter più nemmeno “fare un passo della vostra vita senza adorare questo sogno”. Avrei voluto anche sentirvi parlare di ragazze, capire in quale conto tenevate la donna e quale donna poteva attrarvi. Avrei voluto indagare dentro le vostre speranze, lasciarmi cullare dalla brezza delle vostre malinconie. Sedermi con voi alle “Giubbe Rosse”, rabbrividire per la prima cucchiaiata di gelato, quella che apre la via al primo frammento di sapore”.
“Sei certa che avremmo gradito questa tua intrusione? Questo tuo voler rubare il miele della nostra amicizia, l’esclusività delle nostre confidenze?”
“Oh, sì. Avrei fatto di tutto per farmi amare…”
“Da me o da lui? Attenta che era un fascinatore. Un uomo irresistibile. Avresti potuto restarne folgorata”.
Un’onda più lunga, e già colorata di notte, bagnò in quel momento le mie scarpe e l’orlo dei calzoni di Sandro. Stavamo entrando in un autunno che già spasimava verso l’inverno.
La cenere, che sembrava tingere il nostro mondo di quell’ora, fu sopraffatta dalla pece dell’ora notturna, forata in cielo da poche stelle e lì, vicino a me, dalla brace della sigaretta che ora pendeva dalle labbra del mio amico. Sentivo il suo respiro un po’ ansimante (per la fatica di camminare sulla sabbia bagnata o per l’emozione dei ricordi?), ma non smettevo di chiedere, di scavare dentro lo scrigno, solo in parte aperto, mai veramente spalancato, della loro giovinezza comune.
“Ho saputo che ha avuto una passione di fuoco per una bella donna e che avrebbe voluto abbandonare moglie e figli”.
“E io l’ho esortato a seguire la voce del cuore, ma la sua generosità l’ha indotto a sacrificare se stesso, per evitare ai suoi di casa troppa sofferenza”.
“Com’era quella donna? Descrivimela”.
Sandro si voltò a guardarmi in volto nel buio, e – come se mi vedesse solo allora –
“Era il tuo ‘doppio'” – mormorò, accigliandosi.
“Un sosia? Un clone della mia immagine?”
“Basta, cerchiamo un posto dove mangiare”
Fu lui a riprendere il discorso, dopo un mio lungo silenzio, ormai seduti, all’interno di un ristorante semideserto, davanti a un piatto di sogliole non troppo invitanti, del tutto in carattere con il clima cupo che si era creato.
“Ti rendi conto della morbosità della situazione? Ti stai innamorando di un morto, di un uomo che non hai mai visto, di cui conosci parzialmente l’opera e l’originale pensiero. Ma cosa ne sai dei suoi tic, delle sue debolezze, del suo modo di sorridere, arrabbiarsi, del suo odore, delle sue smorfie, dei piccoli momenti della sua vita piccola. Anche i geni, i superuomini hanno momenti di fisicità minima; non passano certo la vita a interpretare Nietzsche e Benn. Sai se ti piacerebbe veramente toccare la sua carne ed essere toccata da lui? Credi che un suo bacio ti farebbe impazzire, e magari l’odore del suo fiato – fumava tante sigarette, sai? – potrebbe averti indisposta, male impressionata. Non si può amare un uomo raccontato, eroicizzato. Non si può innamorarsi di un fantasma, di un’ombra. Oltretutto, ingelosendomi, mi fai essere involontario complice di una situazione così insana ed assurda”.
Ci salutammo, stanchi per la passeggiata e ancora più per la difficile conversazione. Salimmo nelle nostre camere, una di fronte all’altra. Sentivo Sandro muoversi irrequieto. Temevo soffrisse, oppresso dalla sua sempre più oscura fatica di vivere, complicata ora anche dal mio paradossale e capriccioso atteggiamento.
Mi svegliai in un’alba di latte. Lo specchio rimandò l’immagine di un donna appagata dalla consolazione di essere stata un doppio, ma risolta a cambiare esistenza.

Grazia Giordani

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Pietra è il mio nome

Voce del Gabibbo per la strega del Seicento nero

Lorenzo Beccati dalla tv al thriller con un tuffo nella storia genovese

Lorenzo Beccati

Lorenzo Beccati

Lorenzo Beccati, genovese, cinquantottenne, autore televisivo (è la voce del Gabibbo) dagli anni Ottanta uno dei più stretti collaboratori di Antonio Ricci, appassionato di storia, nuovamente si cimenta con un noir che già fa parlare i critici, prima ancora di essere esposto in libreria, dove arriverà domani con il titolo di Pietra è il mio nome (Edizioni Nord, 247 pagine, 14,90 euro). L’azione scoppia: subito le fiamme di un incendio. Siamo nella concitata Genova agli albori del Seicento e la casa che si trasforma in rogo è quella dei conti de Negri in vico Lepre. Fin dall’inizio, senza preamboli, l’autore fa capire che c’è una sola donna capace di apportare aiuto ai genovesi. Pietra sostiene di essere una rabdomante. Ma è solo un donna consapevole di non poter rivelare la sua reale natura perché il contesto storico/sociale in cui vive non le perdonerebbe mai le sue doti straordinarie e la sua super intelligenza: la farebbe confondere con una strega, facendo alitare intorno a lei un’aura malefica. I suoi talenti le permettono di trovare non solo sorgenti d’acqua, ma anche bambini scomparsi e gioielli rubati. Molti di noi sarebbero felici, a questo punto, di averla per vicina di casa, viste le sue benefiche virtù. Procedendo nella lettura, non tardiamo ad accorgerci, e qui il plot narrativo s’arricchisce d’interesse, che non solo metaforiche rose e violette sbocciano nel giardino della prodigiosa donna, ma anche fiori del male, perché Pietra cade in disgrazia, chiamata dal Bargello, in quanto sospettata di omicidio. Proprio le autorità che prima si appellavano a lei per sciogliere l’enigma di tenebrosi fatti di sangue, ora, accanto al cadavere di una donna picchiata a morte, hanno trovato una bacchetta da rabdomante, circostanza che la rende principale sospettata dell’omicidio. Per dimostrare la propria innocenza, Pietra dovrà farsi detective di se stessa (e chi meglio di lei potrebbe, viste le sue doti?) A rendere più solleticante la trama, che qui prende tinte da romanzo gotico, Pietra capirà che la giovane trucidata è un fantasma emerso dalle ombre del suo passato, quasi un alter ego capace di riportare in superficie rabbie antiche e oscuri sentimenti falsamente addormentati. Questo è il momento di agire veramente. Chi vuole incastrarla? Chi è il vero omicida e quali sottili contatti lo collegano alle sue vittime? Chi segue il programma televisivo Striscia la notizia avrà già assaggiato vari antipasti di questo strano romanzo che parla di una donna del passato, alquanto strana pure lei, dal «nome resistente come i pregiudizi che la perseguitano; dal nome aspro come il pericolo che striscia tra i vicoli di Genova».. Ma a questo punto abbiamo cambiato idea: non vorremmo più averla come vicina di casa. Meglio lasciarla dentro le pagine, si arrischino ad avvicinarla i lettori appassionati di thriller.

Grazia Giordani