VITE DISPERATE A EAST VILLAGE
Leggendo il nuovo romanzo di Miriam Toews, Un complicato atto d’amore, pubblicato da Adelphi, nell’elegante traduzione italiana di Monica Pareschi (pp.275, € 16), siamo propensi a credere che nessuno di noi sceglierebbe di vivere a East Village, perché in questo livido paese, sprofondato nelle praterie canadesi, immerso in un alienante silenzio, ammorbato dal tanfo dei macelli, conducono le loro esistenze disperate i personaggi descritti dall’autrice.
Nomi Nickel, la sedicenne protagonista – voce narrante delle sventure sue e della sua famiglia – ci offre subito un sintetico quadro della situazione: “Noi siamo mennoniti. Per quel che ne so, è la sottosetta più sfigata a cui si possa appartenere a sedici anni. Cinquecento anni fa in Europa, un tizio di nome Menno Simon s si è messo di buzzo buono per inventarsi una religione tutta sua e lui e i suoi seguaci olandesi polacchi e russi sono stati ammazzati di botte o costretti a conformarsi, finché alcuni sono venuti a cacciarsi proprio qui dove sono io adesso. Ironia della sorte, hanno chiamato questo posto East Village, il nome del quartiere di New York dove vorrei tanto abitare”.
E siamo certi che la disgrazia peggiore, per i protagonisti del romanzo, si stata quella di appartenere alla bigotta e soffocante setta religiosa. Nomi è rimasta sola col padre, un insegnante di poca personalità, eccessivamente devoto, elusivo. L’adorata sorella si è dileguata con un innamorato; la madre è scomparsa in maniera misteriosa, sopraffatta dal dolore per la fuga della figlia e dalla vergogna per la scomunica, ricevuta dalle mani del fratello, fanatico e crudele pastore di quello sfortunato paese. “Tutto quello che faceva mia madre dopo la notte delle sassate e degli insulti a suo fratello sembrava misterioso e inquietante. Credo che adesso la chiamerei disperazione. È difficile essere disperati in un posto dove quello che succede è sempre volontà di Dio. È difficile sapere cosa fare del tuo senso di vuoto quando non è previsto che tu lo provi”. Abbandonata a se stessa, Nomi si sforza di accudire il padre, rimasta sola nella casa dove i mobili prendono a sparire come le persone. E la sentiremo criticare la legge feroce dell’ortodossia, col suo occhio acuto e controcorrente e col suo spirito lontano dalla morale comune, innamorata di un giovane che la farà soffrire, fumatrice di tabacco e non solo, adolescente alla deriva e pur sempre generosa nei confronti di chi le vive accanto.
Grande abilità dell’autrice sta nel dipingerci una vicenda così lacerante, filtrandola però attraverso la voce ironica e il senso dell’umorismo veramente trascinante della giovane protagonista. Questo contrasto regala quasi un’allucinata originalità alla narrazione, spingendo il lettore a farsi detective, insieme a Nomi, per scoprire le reali ragioni della scomparsa della madre. Per capire il senso finale del complicato atto d’amore. Che sua madre fosse fuggita per risparmiare al padre di dover scegliere tra lei e la chiesa, dopo la scomunica? Che si fosse suicidata per il senso di colpa, come ipotizzava lo spietato fratello pastore? Che si fosse rifugiata in luoghi ameni per ridare un senso alla sua vita? Alla ragazzina piace fantasticare, immaginando situazioni e dialoghi spesso divertenti, rifugiandosi nelle sue storie, per sopravvivere a tanta catastrofe. A sua volta scomunicata dall’inesorabile zio, scomparso anche il padre, Nomi troverà la forza di abbandonare quello sciagurato paese. E a noi sembra di vederla, seduta sul pavimento della sua camera, immersa nei ricordi, ascoltare le voci e i passi della sorella e della madre che si scambiavano confidenze in cucina e l’armeggiare del padre in giardino che si stava prodigando “perché fuori dalla sua finestra fosse tutto più bello”.
Grazia Giordani