Archive for aprile 2006

Vite illustri legate dal caso
Dalle profonde radici antiche della casualità in letteratura possono ancora nascere rigogliosi fiori nuovi. Come a dire che, dopo il capolavoro di Thornton Wilder, Il Ponte di San Luis Rey,  e dopo buona parte dell’opera di Auster e Cunningham – solo per citare pochi nomi della letteratura mondiale -, c’è ancora spazio per intrecci di vite bizzarramente legate dal tanto sottile quanto saldo fil rouge del caso.
Il nuovo stuzzicante affresco di destini ci è offerto dalla penna di Rachel Cohen che nella sua opera prima: Un incontro casuale (Titolo originale: A Chance Meeting Intertwined Lives of American Writers and Artists,1854-1967, Adelphi, pp.502, euro 30), nella traduzione di Stefano Manferlotti, sa farci retrocedere nel tempo, trasportandoci tra Ottocento e Novecento, solleticati dalla compagnia dei più bei nomi della letteratura e dell’arte americana degli ultimi centocinquant’anni..
Anche Willa Cather nel suo delizioso La nipote di Flaubert aveva scritto di incontri fortuiti tra gente di lettere, ma la Cohen non si contenta della verità storica e sa ricorrere al verosimile con mano felice, creando quasi una danza fra i trenta personaggi del volume, sfoggiando una capacità combinatoria che ci riempie di divertita ammirazione. I ritratti della sua galleria sono vivaci come racconti e, nel contempo gremiti di quei dettagli che siamo soliti ritenere tipici del saggio, sottolineati da una ben scelta serie di foto artistiche di Mattew Brady, Carl Van Vechten e Richard Avedon , soprattutto quest’ultimo, ritrattista capace di cogliere non solo l’anima, ma anche i tic, l’ironia dei personaggi fotografati. Incontriamo Henry James bambino e ci sembra di vederlo in posa, con la sua giacchetta costellata di bottoni, proprio nel momento in cui Brady lo ritrae al fianco del severo padre e poi lo ritroviamo adulto,scrittore di successo, schierato dalla parte di Dreyfus, negli anni spinosi dell’affaire, scrittore sottilmente anglofilo, pur nella sua americanità (“prese la cittadinanza britannica, ma non cessò di pensare a se stesso come a uno scrittore americano”). E respiriamo il clima della Guerra Civile tra sudisti e nordisti e vediamo il generale Ulysses Grant sui campi di battaglia e poi a colloquio con lo scanzonato, vivacissimo Mark Twain, primo generoso editore delle sue memorie.
L’autrice di questa silloge di profili ci confida nell’incipit che molti di questi personaggi cominciarono a farle compagnia dieci anni fa, quindi il suo è chiaro che non è stato un lavoro di getto, ma un’opera minuziosa di studio serio, seppur intarsiato di fantasia. “Nel bagagliaio – dice – avevo due casse di libri di Henry James, Mark Twain, Ulysses Grant, Willa Cather, Katherine Anne Porter, James Baldwin, Marianne Moore, Elizabeth Bishop”. Insomma, la Cohen era in compagnia di alcun i fra i più bei nomi della letteratura americana e la tentazione per lei è stata forte di osservare come “si ponevano di fronte all’amore, alla solitudine, alla religione, alla natura, alla storia, a ciò che leggevano, alle loro famiglie. Più di ogni altra cosa, però, mi interessava come vivevano l’amicizia”.
E fu così che la curiosità dell’autrice l’ha portata a scandagliare le pieghe più intime del pensiero e delle consuetudini dei suoi trenta personaggi, dedicando una cura tutta speciale a Elisabeth Bishop (Adelphi ha appena pubblicato Miracolo a colazione) poetessa di cui la critica si va occupando con sempre più vivo interesse per la rara valenza colloquiale dei suoi versi, guidati dall’insolita musa della geografia e non solo perché “più delicati di quelli degli storici sono i colori usati dai cartografi”, ma perché la sua singolare penna è ispirata da quel continente sconfinato in cui lo spazio sovrasta e supera il tempo. Rachel Cohen leggerà miriadi di lettere intercorse tra la Bishop e la Moore e si accorgerà ben presto che non poteva mantenere separati i singoli incontri poiché “questa prospettiva non rendeva ragione del fatto che William Dean Howells, l’amico di una vita di Twain, fosse anche assai caro a Henry James. È nella natura stessa delle storie private che gli elementi da cui esse sono formate si sovrappongano”. Chiuse le cinquecento pagine del quasi saggio, venato di scrittura creativa, siamo persuasi di aver letto pagine per palati esigenti che non si contentano della banalità.  
Grazia Giordani
Pubblicato ieri nelle pagine culturali de L’Arena

Primavera

Ieri abbiamo avuto la sensazione di un vero inizio di primavera. La campagna – da noi in Polesine – a quest’ epoca sfoggia un abito gioioso in tutte le tonalità del verde, punteggiato dal giallo dolce dei ranuncoli, da un tripudio di margherite e dal viola gentile del fior di pisello. Nei fossati brilla il candore delle ninfee cui fa da controcanto il vivido giallo degli ireos selvatici fioriti ai bordi. Passeggiata lunga fra i campi a raccogliere bruscandoli per il tradizionale risotto. Unica voce: l’abbaiare di qualche cane e il ronzio di calabroni intenti a succhiare dal calice dei primi fiori. Momenti di gioia agreste veramente intensi.

Se amate i risotti di verdure, la mia ricetta è qui

 

Il libero pensiero di Bertrand Russell sull’etica e la fede 

 

Dal 1960 ad oggi è arrivato alla decima edizione italiana Why I Am not a Christian, titolo originale di “Perché non sono cristiano”, il saggio best seller di Bertrand Russell che ora Longanesi” (pp.221, euro 14,60) ci ripropone tradotto da Tina Buratti Cantarelli, con  appendice di Paul Edwards, impreziosito dall’acuta introduzione di Piergiorgio Odifreddi. Paragonato ad Einstein e a Freud per la sua ricchezza e varietà di intuizioni,  Bertrand Russell (1872-1970) affronta globalmente il discorso sull’etica e sulla fede nel suo saggio più noto e controverso, con la forza polemica che gli è propria, sottolineando la sua mai smentita posizione di libero pensatore.Non dobbiamo dimenticare che Russell,  oltre ad essere stato  filosofo, matematico e scrittore, insegnante a Cambridge da cui fu allontanato a causa delle sue idee pacifiste, e quindi riaccolto dopo una parentesi di insegnamento americano,   premio Nobel per la letteratura nel 1950, fu anche impegnato  nelle principali battaglie civili, dando vita al “Tribunale Russel” del 1966 contro i crimini di guerra americani nel Vietnam. “Penso che tutte le grandi religioni del mondo – buddismo, induismo, cristianesimo, islamismo e comunismo – siano, a un tempo, false e dannose. A rigor di logica, poiché contrastano fra loro, non più di una dovrebbe essere quella vera.” Già sentiamo in nuce quale sarà l’assunto del saggista, leggendo in prefazione all’opera questo suo sintetico e lapidario pensiero sostenuto dalla persuasione che il mondo necessiti di “menti e di cuori aperti, non di rigidi sistemi, vecchi o nuovi che siano”. Il filosofo si dice convinto che non siano gli argomenti speculativi a spingere gli uomini a credere in un Dio, ma che molti vi credano solo perché non sanno liberarsi dagli insegnamenti appresi nell’infanzia, visto che l’uomo è indotto a credere in Dio per bisogno di sicurezza e di protezione. Russell non esita a sottolineare come “il timore sia fondamento della religione, ovvero la paura dell’occulto, dell’insuccesso, della morte”. E vede uno spiraglio salvifico nella scienza che “può aiutare l’umanità a superare questa vile paura nella quale ha vissuto per tante generazioni”. Quindi il filosofo ci esorta a non avere paura del mondo che va conquistato con umana intelligenza, con autoconsapevolezza ed autostima, alieni da inutili rimpianti del passato. “Occorre sperare nell’avvenire – dice –  e non voltarsi a guardare a cose ormai morte, che, confidiamo, non rivivranno più in un mondo creato dalla nostra intelligenza”. Il saggista si chiede se la religione abbia contribuito alla civiltà e non esita ad esprimere il suo parere negativo  in proposito, visto che non crede che vi siano santi nel calendario “la cui santità sia dovuta ad opere di vera utilità pubblica”. Se il cristiano moderno si è addolcito nella forma mentale, rispetto a quelli del passato, il mutamento deve essere attribuito a generazioni di liberi pensatori che dal Rinascimento ad oggi li hanno indotti a ravvedersi, rivedendo i propri pregiudizi.Russell procede chiedendosi se la religione possa lenire i nostri affanni e risponde rilevando come la morale non sia strettamente legata alla religione, visto che certe virtù basilari si riscoprono più facilmente tra coloro che rifiutano i dogmi piuttosto che tra quelli che li accettano. I mali del comunismo – a suo avviso – sono gli stessi del cristianesimo, poiché vede nei comunisti dei falsari della storia come li ha visti nella Chiesa. Secondo il suo pensiero, sostanzialmente la OGPU (Ghepeù) non differisce dalla Santa Inquisizione. La passione persecutoria della Chiesa occupa spazio nei rilievi del filosofo che sottolinea la tolleranza  dei buddisti mai persecutori nei confronti dei loro avversari. Che Russell non abbia avuto vita facile, a sua volta perseguitato,  lo apprendiamo anche dalla bella introduzione di Odifreddi che sottolinea la solidarietà del mondo accademico e di Einstein per cui: “I grandi spiriti hanno sempre trovato la violenta opposizione dei mediocri i quali non  sanno capire l’uomo che non accetta stupidamente i pregiudizi ereditati, ma con onestà e coraggio usa la propria intelligenza”. Grazia Giordani

Pubblicato stamani nelle pagine culturali de L’ARENA 

 

 

L’ amore e il dolore, l’intreccio ritorna leggendo Petrarca
Dall’esperienza letteraria di un italianista che legge e interpreta i versi d’amore di Petrarca, in continui flash back con suoi lontani ricordi personali, può prendere vita una trama che intriga il lettore . E questo è il caso de L’amore in sé (Guanda, pp.174, euro13) il nuovo romanzo di  Marco Santagata. Se già avevamo apprezzato la sua penna nel Maestro dei santi pallidi (Guanda, Premio Campiello 2003), per la capacità di creare un incantevole affresco, testimone dello spirito di un’epoca, nella nuova opera dell’autore modenese, docente di letteratura italiana all’università di Pisa, troviamo conferma della sua originalità nel comporre intrecci.
Sembra che chi scrive – volente o nolente – porti sulla carta brandelli del proprio vissuto, quindi entrare nei panni di un italianista non sarà stato difficile per Santagata, esperto del Canzoniere e soprattutto in grado di riproporci un Petrarca lontano dalla più vieta lettura accademica, meno “filologico”, di conseguenza proprio per questo motivo,  più coinvolgente e vicino ai nostri tempi. Ed è appunto nella lettura del sonetto La vita fugge e non s’arresta un’ora che si risveglia tutta la capacità di far riaffiorare un dolore amoroso che credeva sopito – per il professor Fabio Cantoni, protagonista del romanzo, temporaneamente trasferito nell’ateneo di Ginevra – riscoprendo nei versi petrarcheschi non una poesia d’amore, ma piuttosto versi sull’amore e sull’afflato nostalgico che da essi può scaturire. Perché nei suoi anni più vulnerabili, quando Fabio era ancora adolescente, si era innamorato con passione forte e protesa verso un futuro pieno di vagheggiati ideali, dell’affascinante Roberta, l’ineffabile, eterea Bubi, ricca, di una classe sociale molto più elevata della sua. Un amore, quindi, impossibile in anni in cui le differenze di casta avevano ancora molto peso. E che Bubi fosse irresistibile l’autore sa dircelo in maniera efficace, con tutta la forza sognante del rimpianto: “Nella memoria di Fabio si sarebbero accavallati l’immagine di Bubi che scuote al sole i capelli grondanti, il profumo della sua guancia, il biancore delle cornee nella penombra, un profilo catturato con la coda dell’occhio, la voglia di stringere più forte… E canzoni, tante canzoni… Una ininterrotta colonna sonora. I successi dell’estate parlavano per loro”.
La penna di Santagata è delicata nel rinverdire l’estasi di quei primi baci, lo stupore dei due adolescenti che percorrono i loro primi passi fuori dall’infanzia, percorsi dagli indimenticabili palpiti di un sentimento tanto totalizzante. Totalizzante soprattutto per lui, per Fabio che è nuovo ai misteri della vita e crede, ingenuamente, alla possibilità di un futuro al fianco di una ragazza così diversa dalla sua indole per nascita ed educazione. Purtroppo, il protagonista della storia, non ha gli strumenti interiori – intendiamo la malizia – per presagire il drammatico epilogo: lo attende una tragica sorpresa che non coglie del tutto alla sprovvista il lettore più attento, quello a cui non sfuggono i sottili indizi, abilmente disposti nella pagina, dalla penna dell’autore che sembra voler mettere alla prova la perspicacia di chi sa leggerlo con attenzione.
Naturalmente, non diremo una parola di più sulle ragioni dell’amara delusione di Fabio, per non togliere la sorpresa a chi si appassionerà a queste pagine intrise di sentimenti incrociati tra realtà e continui rimandi poetici, sottesi da un ininterrotto sottofondo di canzoni, un po’ come avviene nelle proiezioni cinematografiche, dove l’accompagnamento musicale non tace mai. Possiamo però anticipare il godimento che deriva dal prendere posto sui banchi dell’ateneo ginevrino, divenuti noi stessi allievi del professor Cantoni che ci presenta un Petrarca così “denudato”, toccato da malinconie, persino da impulsi suicidi, impreziosito da un lapsus dell’insegnante che vede Bubi – in luogo di Laura – il simbolo del desiderio.
Il candore di una Ginevra imbiancata di neve gioca il misurato contrasto con una lezione impudica, oltre la comprensione dello stesso uditorio, perché capace di coniugare l’afflato evocatore della poesia con i sofferti ricordi legati alla seduzione di una ragazza elusiva, tormentata da un morboso segreto.
L’affiorare del doloroso passato finisce per avere, alla fine, una funzione purificatrice perché il protagonista del romanzo prenderà consapevolezza della capacità della memoria a lungo rimossa di progettare un futuro più limpido e sgombro da rancori. (g.g.)

L’uomo del cargo

di Donatello Bellomo scrittore e giornalista

 Giovedì prossimo 6 aprile – alle ore 15 – nella sede dell’Universitù Aperta di Sermide parlerò – presente l’autore –  de L’uomo del cargo (Mursia) di Donatello Bellomo, responsabile delle pagine culturali del quotidiano L’ARENA. Recensito dalle più importanti testate nazionali, il romanzo ha raggiunto il raro traguardo della quarta edizione. La vicenda letteraria  dell’avvincente romanzo nasce da un dono. Dal gesto di amicizia del vecchio capitano Destouches (personaggio caro all’autore che incontriamo anche ne L’ultima notte sul Normandie e che incontreremo ancora nel nuovo romanzo  in uscita a maggio) di regalare il Cygnus, la sua barca a vela, all’amico giornalista italiano. Nel viaggio via mare per portare la barca dalla Francia all’Italia, il giornalista-marinaio rimane vittima di un naufragio e viene tratto in salvo da un cargo diretto in Brasile. Sulla nave da trasporto viaggiano insieme all’equipaggio e al comandante, quattro passeggeri paganti, ognuno con un segreto che il protagonista, mosso dall’istintiva curiosità del suo mestiere, svelerà nella sua interezza. Lessico frizzante e capacità di creare continua suspense sanno tener viva l’attenzione del lettore dalla prima pagina alla fine.