Archive for marzo 2016

Uno sguardo su due secoli

medardoaVirgilio Guidia

Grazia Giordani

Rovigo non si è smentita nemmeno questa volta, in fatto di mostre d’arte, offrendoci con il sintetico titolo ‹‹Al primo sguardo››, un’esposizione di alto spessore, addirittura in due sedi storiche della città. Inaugurata lo scorso 27 febbraio, resterà aperta fino al 5 giugno 2016,  promossa dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo e affidata alla consueta cura di Giandomenico Romanelli, affiancato da Alessia Vedova.

Da degustare piano come un prezioso liquore questa mostra che ha visto il suo incipit a Palazzo Roverella, dove circa duecento capolavori appartenenti alla collezione della Fondazione promotrice, sono apparsi al pubblico per la prima volta. Un viaggio di grande suggestione tra Ottocento e Novecento, con opere, fra l’altro, di Fattori, del rodigino Cavaglieri, di De Nittis, di Tullio Crali.

Ad accoglierci all’entrata, è il toccante “Bambino ebreo”, di Medardo Rosso (1858-1928), la cera della scultura così morbida e sfatta, qui ci regala la tenerezza della carne, sottolineando l’introspezione psicologica propria a questo grande modellatore d’immagini infantili.  In “Fanteria italiana”, innovativo Giovanni Fattori (1825-1908) nel suo uso del colore quale elemento costitutivo dell’immagine stessa. Incantevole Giuseppe De Nittis (1846-1884), con i colori caldi del suo “Paesagio ofantino”, “La merenda del gondoliere” di Alessando Milesi (1856-1945) è stuzzicante anche per le considerazioni sociali che ne scaturiscono.

Abbiamo ritrovato al Roverella ancora opere del rodigino Mario Cavaglieri (1887-1978) con la sua sofisticata ed inconfondibile eleganza degli interni, dentro cui si stagliano figure femminili d’incantevole bellezza. Qualche perplessità da parte nostra inerente il padovano Gruppo Enne, dove la ricerca artistica ha spesso i connotati di un divertissement visivo, piacevole all’occhio, ma non atto a suscitare emozioni. Ci è apparso molto gradito ai fruitori giovani, più staccati da concetti classici e protesi verso l’innovativo.

La seconda tappa a Palazzo Roncale  ci fa ammirare non solo la preziosa donazione di Pietro Centanini alla Fondazione, permettendo all’intero corpus di restare integro e fruibile dalla collettività, ma anche gli interni restaurati dello splendido Palazzo, degno contenitore di un magnifico contenuto. Il Cinquecento qui parla a voce alta e non ci fa meraviglia sentire che Enrico III, re Di Francia e Polonia, in un suo viaggio rodigino sia stato lieto di sostare, in tempi lontani,  fra queste mura.

La collezione Centanini è, in sintesi,  una raccolta d’arte che unisce ai molti acquisti, ben guidati,  che il collezionista aveva fatto sul mercato, il patrimonio d’arte della sua antica famiglia. Centanini indirizzava le sue scelte soprattutto sugli artisti veneti, ma anche, in omaggio alla moglie di origine partenopea, alla scola napoletana. Pur senza chiusure aprioristiche. In collezione si trovano, infatti, opere di grandissimo interesse di Palizzi, De Nittis, Lega, Ghiglia, Boldini, Fattori, Soffici, Rosai, De Pisis, De Chirico, Guttuso, insieme a Zandomeneghi, Milesi, Luigi Nono, Licata, Brass, Barbisan, ma anche dei celeberrimi Utrillo e Chagall, senza dimenticare un inedito Guidi, dal cui ‹‹Ritratto femminile›› è stata tratta l’icona della mostra. La Famiglia, invece collezionava i vedutisti e i pittori di interni, compresi alcuni magnifici Guardi.

Abbiamo gustato al Roncale una raccolta unica nella sua specificità, nata da un appassionato d’arte, presente all’inaugurazione della mostra, per il quale ‹‹ogni collezionista avveduto, che in principio può essere spinto dal semplice appagamento di egoistico desiderio di possesso, col tempo non può che desiderare che quanto da lui raccolto e amato divenga veicolo sociale di cultura››.

Fino al 5 giugno, e speriamo oltre, eccetto il lunedì,  l’esposizione a Palazzo Roverella e Palazzo Roncale, potrà essere visitata e volendo rivisitata – vista l’immensa mole di opere – sempre ad ingresso gratuito.

La lezione del Maestro

Henry James

Uscito oggi in Arena

Scrittura e amore al centro dell’analisi di Henry James

Un romanzo breve di grande purezza letteraria a cent’anni dalla morte del grande autore

Proprio in occasione del centenario della morte di Henry James (New York, 1843-Londra,1916)  Adelphi ci propone ‹‹La lezione del Maestro›› (Titolo originale The lesson of the Master, pp.108, euro 11, nella bella traduzione di Maurizio Ascari).

Capolavoro di ambiguità, al pari di ‹‹Giro di vite››, questo romanzo breve o meglio lungo racconto è uno dei numerosi che l’Autore dedicò all’arte dello scrivere e uno dei suoi prediletti, tanto che volle includerlo nella selettiva New York Edition delle sue opere (1907-1909).

Un giovane scrittore, Paul Overt, invitato dal generale Fancourt nella sua residenza di campagna a Summersoft, nei pressi di Londra, conosce Henry Saint George, un famoso romanziere, ammirato da Overt fino a rasentare la devozione. A Summersoft, Overt incontra anche Marian Fancourt, la giovane figlia del padrone di casa, ammiratrice di entrambi gli scrittori. Paul Overt s’innamora di Marian, pure da lui coinvolta, parrebbe. Ma, c’è sempre un ma, visto che il giovane confida la sua infatuazione a St George che – pur essendo sposato e in compagnia della moglie – ammonisce l’inesperto Overt sui pericoli del matrimonio, sostenendo come una situazione matrimoniale possa bloccare la creatività di uno scrittore, tarpandogli le ali ed impedendogli libertà letteraria. ‹‹Ah, mio caro amico, il rapporto dell’Artista con le donne, e in particolare con quella che gli è più intimamente legata, è condizionato da un fattore schiacciante: mentre è nella natura delle cose che lui abbia un’unica disciplina loro ne hanno una cinquantina. È questo che le rende così superiori ››.

L’ingenuo Overt, parte per una lunga vacanza in Svizzera. Tornato in Inghilterra, apprende che la moglie dell’astuto scrittore è morta e che la giovane Marian Fancourt, sta per sostituirla.

Overt affronta Saint George accusandolo di  averlo ingannato, ma il vecchio scrittore insiste nell’affermare di avergli fatto invece un piacere, impedendogli di arrestare una nascente carriera in salita.

Henry James era nato in America, ma – leggendolo – comprendiamo con chiarezza con quanto impegno abbia  lavato i suoi panni nel Tamigi, diremo parafrasando il Manzoni,  perché uno spirito così finemente ironico e carico di ambiguità, non può essere che made in england.

Il racconto fu composto nei primi mesi del 1888 e pubblicato in due puntate sul mensile letterario Universal Review di New York. L’idea nacque nell’Autore dopo una conversazione col giornalista suo amico Theodore Child sulle conseguenze del matrimonio, in effetti James scrive sui suoi taccuini che l’amico attribuiva la scarsa qualità letteraria di una recente opera di Daudet al fatto che questo autore aveva moglie e figli ed era quindi obbligato a produrre a getto continuo, senza curare la finezza delle sue opere.

Comunque, noi – se fossimo chiamati in causa – potremmo controbattere che Lev Tolstoij ha avuto tredici figli e ciò non toglie che sia stato uno dei più grandi scrittori della letteratura mondiale.

Il racconto di James, al di là dello stuzzicante contenuto, vale molto per la purezza della scrittura, per i dialoghi fulminei e per tutte le caratteristiche che donano unicità ad un grande Autore.

Grazia Giordani

 

L’ignoto Polesine

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(Ph. Paolo Aguzzoni)

Se volessimo far conoscere il Polesine in maniera classica ed ovvia, basterebbe sfogliare un testo storico-geografico e non ci sarebbe bisogno del nostro intervento. Quello che ci prefiggiamo, non è di percorrere un viaggio tradizionale,  piuttosto è la voglia  di spilluzzicare qua e là notizie curiose ed inedite, inerenti questa lingua di terra stretta e lunga, detta Piccola Mesopotamia, in quanto compresa dal liquido abbraccio di Adige e Po.

Insisteremo su Badia, punto di riferimento dell’Alto Polesine, perché chi vi sta scrivendo abita qui e ne ha quindi colte le voci e l’atmosfera in maniera più intima e personale, proprio perché anche le città hanno un’anima. Ovvio sottolineare che il nome Badia (Abbadia) deriva dalla millenaria Abbazia della Vangadizza, volutamente non ci perderemo in date e riferimenti storici, regalando al fruitore uno spicchio del fascino romantico che emana da questi storici ruderi, dall’abside intatta, dal magnifico chiostro che ci fa sognare un ellittico soffitto di cielo. Un monumento che andrebbe visitato con due anime: quella di chi cerca la pura bellezza, contrapposta a quella dello storico che qui di storia potrebbe farne una vera scorpacciata. E la promessa curiosità? Inerisce le due arche, i due sarcofagi esterni che dovrebbero, ma chissà se è vero, ancora contenere i resti mortali di Azzo e Cunegonda d’Este che – in quanto imparentati con la casa reale inglese -, per anni hanno visto un messo inviato dalla Regina Elisabetta, portare un mazzo di rose bianche, in memoria dell’antichissima cuginanza. Proseguendo con le curiosità, nell’omonima via, potreste vedere (solo vedere, perché è ormai cadente e in fase di eterno restauro) il tardo quattrocentesco Palazzetto degli Estensi. Nelle notti di tempesta, dicono si veda, attraverso le elegantissime trifore, fluttuare il velo bianco di una dama d’Este. Gli scettici sostengono si tratti solo di volgarissime  tele di ragno. Chissà ?

Dulcis in fundo una super chicca è il Teatro Sociale, ora intitolato al badiese, celebre nel mondo del giornalismo, Eugenio Balzan. Costruita nel 1812, questa bomboniera d’oro, è la prodigiosa miniaturizzazione della Fenice di Venezia. E non ha subito incendi, a differenza della sua celeberrima “madre” veneziana. In compenso, ha subito un trentennio di restauro dei restauri. La mangeria politica, in Italia, non fa più effetto a nessuno.

Anche le “Torri Marchesane” sono un’altra curiosità. Semisepolte nell’acqua vorticosa dell’Adige, sprofondano e riemergono in parte, a seconda dei capricci del fiume, creando un effetto di fatamorgana. Per non farsi mancare nulla, Badia non si contenta dell’Adige che ha figliato l’Adigetto. E ha  altri bellissimi palazzi cinquecento-settecenteschi.

A nove chilometri circa da Badia, incontriamo Lendinara – detta l’Atene del Polesine – per la sua prestigiosa eleganza architettonica, per l’atmosfera raffinata che si respira in questa aristocratica mini città, dove i nobili veneziani soggiornavano spesso negli anni antichi, lasciando in eredità agli abitanti la mollezza della parlata veneta, quella elle francese che fa tanto veneziano doc. A Lendinara c’è anche una Madonna nera, assicurano assai miracolosa. E la curiosità ? La splendida Chiesa di Santa Sofia vanta uno dei campanili più alti d’Europa, sormontato da uno svettante angelo che – caduto a causa di un fortunale- fu rimesso in sede da un elicottero americano.

Poco distante c’è Fratta Polesine, patria di Giacomo Matteotti, gremita di ville gentilizie di raro valore, fra cui brilla Villa Badoer, detta la “Badoera”, stupefacente gioiello del Palladio. Qui non ci sono curiosità, solo quintessenza di bellezza.

Rovigo, il capoluogo, vanta una chiesa, “la Beata Vergine del Soccorso” – edificata al cadere del Cinquecento –  fra le più belle d’Italia, detta “La Rotonda”, completamente pavesata all’interno da pitture ad olio, come Palazzo Ducale a Venezia, arricchita da un preziosissimo organo del Callido. E anch’essa ha la sua curiosità che consiste nella caduta della cupola (evidentemente l’architetto non aveva la perizia del Palladio). Ed è stato proprio questo “difetto” a regalarle un tondeggiante charme.

Molti altri luoghi andrebbero nominati, non ultima Adria che ha dato il nome al mare Adriatico, minuscola Venezia in sordina, ma abbiamo fretta di correre in Basso Polesine, più malioso della Camargue. Qui una natura incontaminata ci ammalia per flora e fauna che danno il benvenuto al delta del Po. Perché qui è il vero Delta, non a Ferrara, come erroneamente i più credono.

Perché il Polesine è così poco noto, quasi misconosciuto, a parte le alluvioni di dolorosa memoria? I motivi potrebbero essere molteplici. Quando Venezia era già la Serenissima, il Polesine era “pollicium”, ossia terra paludosa, quindi è partito in ritardo nei confronti delle regali consorelle, per cui basterebbe citare Verona e Vicenza, per capire cosa intendiamo. Ma non è solo una questione di tempi ritardati, il problema sta nel carattere un po’ rinunciatario, diffidente del “foresto”, complessato. Suvvia, polesani  alzate il mento che molta  bellezza abita anche a casa vostra.

Grazia Giordani

 

Aenigma

In Arena 05/03/2016

IL THRILLER. Torna in libreria con un nuovo «giallo» il famoso personaggio televisivo, che ha dato la voce al Gabibbo

L’«Aenigma» di Beccati tra Milano e laGermania

Grazia Giordani

L’aggrovigliata matassa di una sanguinosa rapina verrà dipanata dal commissario Ganz

sabato 05 marzo 2016 CULTURA, pagina 56

Lorenzo Beccati

Dopo «Pietra è il mio nome», ritroviamo in libreria Lorenzo Beccati, celebre voce del «Gabibbo» televisivo, con il suo «Aenigma» (Editrice Nord, pp. 379, 16,90 euro), un thriller fantasy che ci fa supporre la sua simpatia nei confronti di Lovecraft, se non altro per il sentimento d’inquietudine che riesce a generare nel lettore. È sempre nelle giornate qualsiasi che un autore di horror ama ambientare il suo plot narrativo, collocandolo là, quasi per caso, pallida cornice in cui il «dipinto» prenderà connotati ancora più da brivido.È proprio in una di queste giornate scialbe che clienti senza connotati speciali entrano in una banca: una coppia di anziani, una giovane madre, un timido agente di borsa, trasformandosi all’istante in efferati killer.Sparano senza esitare alle guardie giurate e si fanno consegnare un’ingente somma di danaro. Pochi se di borsa, trasformandosi all’istante in efferati killer.Sparano senza esitare alle guardie giurate e si fanno consegnare un’ingente somma di danaro. Pochi secondi dopo, come un tetro fantasma, nell’edificio immerso nel silenzio, compare un uomo vestito di nero che afferra il bottino e se ne va.Non avremmo voluto essere nei panni del commissario Davide Ganz a sgrovigliare questa insolita matassa, dove tutto aleggia in una realtà sospesa che sbalordisce ed inquieta. La soluzione, comprende ad un certo punto il detective, sta nella mente dell’uomo in nero. A dargli man forte sarà Rabiaa, la marocchina che sa trarre segnali dalla gestualità della gente. E noi andremo in «altalena» con questi personaggi da Meersburg, Germania, 1815, allaMilano odierna, con un «cielo novembrino che promette pioggia», pronti a fare un balzo anche nella Foresta dei Violini, 1999. «Aenigma» è l’indovinato titolo del romanzo, dove incontriamo anche un acronimo X Fam, su cui siamo esentati dallo scervellarci, perché ci viene svelato il significato: «Per Franz Anton Mesmer», celebre medico tedesco del ‘700 (da cui deriva l’espressione sguardo mesmerico) unanimemente conosciuto come l’antesignano dell’ipnosi. Pare che i suoi occhi avessero un potere irresistibile, mai più raggiunto in seguito da altri. Al punto che riuscì ad andare oltre l’ipnosi, pensando di entrare dentro il cervello umano. Potrebbe l’uomo nero del romanzo essere un suo imitatore? E in caso positivo, chi è? Avrà una bella gatta da pelare il commissario Ganz, accingendosi a viaggiare dentro la mente dell’uomo misterioso. Chi è curioso proceda nella lettura, gli horror hanno sempre sorprese nell’epilogo.Lorenzo Beccati è nato a Genova nel 1955. Dai primi anni ’80 è il più stretto «complice» di Antonio Ricci, col quale ha collaborato a creare alcuni dei programmi televisivi più fortunati di tutti i tempi. Il suo sito letterario, per chi volesse approfondire, è http://www.lorenzobeccati.com.