Archive for ottobre 2004

Cartolina del 1900 raffigurante un clistere modello soi-meme

 Ci sono notizie così strampalate da farci persino divertire. Sentite questa: in fatto di medicina alternativa, il principe Carlo d’Inghilterra – che parrebbe destinato a diventare re, qualora la madre si decidesse a passare a miglior vita -, sembra consigli caldamente ai suoi sudditi generosi clisteri  di caffè, onde contrastare i rischi del cancro…

Telefonini assolti dall’accusa di “onde” pericolose. Sembra però che le teste piccole siano maggiormente a rischio, quindi quelle dei bambini, visto che ormai anche i poppanti sono provvisti di cellulari. Mah! In che mondo viviamo?

Mi chiedo come si sentiranno i genitori di quei cinque ragazzi che hanno allagato il loro liceo milanese,  ai fini di evitare la prova scritta di greco. Sono allibita…

Il cinema del giovedì pomeriggio – questa volta – mi ha portato a vedere In my country, per la regia di John Boorman. La critica ufficiale è sta “ferocetta” nei confronti di questo film (cfr. qui ) sul post-apartheid in sud Africa. Da parte mia, salvo la fotografia e la recitazione di Samuel Jackson, mentre la Binoche era piagnucolosa e forse non proprio a suo agio dentro il “polpettone” americano. Peccato, perché il tema sarebbe stato di valore umano molto forte e il regista, in altre occasioni, ha saputo dare grandi prove di vera capacità.

La mia strada del cuore

 

Ogni tanto, la solitudine della casa (marito e figlio al lavoro; micia sonnecchiante nella cesta), mi induce ad aprire la TV, come fosse un tic, un gesto automatico, così per sentire una voce. Mentre stiro ascolto piuttosto la radio, se recensisco libri, sto nel silenzio del mio studio, ma ci sono brevi scampoli di tempo pomeridiano in cui la casa è (si fa per dire!) in ordine e scrittura e lettura stanno meritando i loro spazi di quiete. È in queste occasioni che mi regalo un po’ di zapping, a caso, senza troppa speranza di ghiotti incontri. E ieri pomeriggio ho incappato in una lezione di Aldo Busi, impartita a ragazzi che stanno specializzandosi in canto, ballo e recitazione, ma che sarebbe giusto imparassero anche a scrivere e parlare correttamente. Il tema che avrebbero dovuto svolgere portava per titolo: La mia strada del cuore. Credo che già in quinta elementare non avremmo incontrato fatica nello svolgerlo, noi di una certa età, anche senza troppa propensione alla scrittura.

 

Per i ragazzi, invece, si è creato un serio problema.

 

Nessuno di loro aveva da raccontare percorsi preferiti né a piedi, né in bicicletta.

 

Nessuno di loro ricordava passeggiate solitarie lungo rive di fiumi, in spiaggia, montagna, pianura, boschi, prati o percorsi urbani.

 

Il deserto più assoluto e nemmeno capacità di inventare.

 

Sembrava fossero stati invitati a descrivere l’impossibile.

 

Quanto a voi che non siete certo così a corto di ricordi e fantasia, quale sarebbe stato lo svolgimento del tema?

 

Insomma, qual è la vostra strada del cuore?

 

Mi attendono otto giovedì pomeriggio al cinema e ne sono ben lieta, perché adoro questo tipo di spettacolo. Mi piace l’atmosfera della sala al buio; gli occhi fissi sul grande schermo; la mente dentro la trama; i commenti, poi, all’uscita, tornando alla luce, anche se più che altro è un ritorno alla penombra, perchè ormai fa buio presto. Il primo film che ho visto è stato Luther che – a parte qualche caduta nel finale – mi è molto piaciuto. Se vi interessa, potete trovare qualche notizia qui

La Rollina

 

Sappiamo bene che può bastare una cosa minima a riportarci davanti agli occhi brandelli di passato. Se a Proust è stato un profumo a riportare le famose madeleines, con tanto di spicchi di vita annessi, non ci dobbiamo meravigliare se la vista di una vecchia auto mi ha fatto innestare la retromarcia, riportandomi agli anni adolescenti. Insomma, questo preambolo per dire che ieri – proprio vicino al muro della canonica – l’ho rivista, col suo solito abito rosso come il frutto del peccato, tirata a lucido, sempre lei, la nostra Topolino A, balestra corta, quella che il mio ragazzo di allora, ormai da molti lustri mio marito, aveva vinto giocando a poker.

 

Sissignori, una partita a carte, giocata al bar in una delle nostre interminabili serate di nebbia ottobrina, gli aveva fruttato quella piccola fortuna. Il vecchietto – un tipo strano che somigliava a certi caratteristi dei film western – volendo sbarazzarsene, l’aveva messa come posta in gioco, forse in maniera scherzosa. Chissà?

 

Comunque sia, una volta vinta e riportata a casa in maniera trionfale, Lino l’ha rimessa a nuovo, felice di tutti gli abbellimenti e le “comodità” che andava scoprendo, fra cui un ingegnoso impianto di riscaldamento, ovvero un tubo che – collegato col radiatore – regalava tepore all’abitacolo, con l’ausilio di un tappo da damigiana che si poteva mettere o togliere. Non proprio una sciccheria, però provvidenziale nei nostri gelidi inverni.

 

Se penso alle esigenze dei nostri figli d’oggi, mai contenti, sempre alla ricerca dei modelli di auto più nuovi e lussuosi, mi vien proprio da ridere. Eppure, noi eravamo contenti con la nostra “figlia minore della Rolls Royce”, così ci appariva nel nostro ingenuo entusiasmo, e per questo l’avevamo battezzata Rollina. Aveva le gomme “leopardate” per le molte toppe, il cambio a cloche abbastanza primordiale e, forse a causa del suo fiammante colore, una volta ci fruttò l’inseguimento di un toro scappato da una stalla, lungo un viottolo di campagna. Che paura e che risate, poi, quando il focoso animale fu catturato dai suoi preoccupati padroni!

 

Docile e accogliente ci condusse – sempre in quegli anni felici della nostra giovinezza – in un albergo cittadino, invitati a un ricevimento di nozze molto chic. Faceva uno strano effetto vederla parcheggiata a fianco delle macchine più costose del momento, nel cortile dell’hôtel, impavida e per nulla imbarazzata, in mezzo a tanto lusso. Furono nozze dall’esito infelice, e se è vero che il buon giorno si vede dal mattino, si avvertì subito un’aria strana, se non proprio sinistra. La sposina, leziosa, sembrava finta quando baciava tutti e chiamava “tesori miei” anche i paracarri sul sagrato della chiesa; lo sposo troppo inamidato, sembrava presago dei guai a venire. Durante il sontuosissimo pranzo, allietato (si fa per dire!) da un suonatore dai lamentosi arpeggi (non ricordo più quale strumento suonasse, ma era qualcosa di funebre!), il cameriere addetto al taglio della torta a molti piani, cadde dalla scaletta che era stato costretto a salire, vista l’altezza esagerata del dolce nuziale, trascinandosi dietro spruzzi di panna e occhiatacce degli indignati sposi.

 

Tornando alla Rollina, la vendemmo con qualche rimpianto, quando ci fu possibile permetterci qualcosa di meno datato, ma i ricordi non hanno prezzo e non hanno mercato. Infatti, eccoli balzar fuori come misirizzi da una scatola magica, rossi di gioia come l’abito fiammante della Rollina, profumati di nostalgia e di lontana giovinezza. (g.g.)

 

Il parnasoambulante mi ha chiesto un parere sulla scrittura. Se vi interessa, oltre che riportato qui sotto, potete leggerlo nel multiblog,(sezione sulla scrittura). Mi farebbe piacere la vostra opinione in proposito.

Un mio parere sulla scrittura?

 

Lettura e scrittura sono – a mio avviso – un binomio imprescindibile.

 

Nessuno di noi dovrebbe scrivere se non avesse alle spalle un cospicuo patrimonio di letture tali da avergli “arredato il cervello”, creandogli un retroterra prezioso a cui attingere nei momenti cruciali della sua vita, non solo per scriverne a sua volta.

 

A questo proposito, vi invito a leggere l’originale saggio di Proust Sulla lettura[1], dove il grande scrittore, tra l’altro, afferma: «Uno spirito originale sa subordinare alla lettura la sua attività personale. Per lui diventa soltanto la distrazione più nobile, soprattutto la più nobilitante, poiché il sapere e la lettura sono i soli a creare le”buone maniere” dello spirito. (…) I letterati rimangono l’aristocrazia dell’intelligenza, e ignorare questo o quel libro, questa o quella particolarità della scienza letteraria, sarà sempre, anche in un uomo di genio, un segno di proletariato intellettuale.»

 

Dunque, chi ha tesaurizzato la pagina scritta prima dei classici, poi dei moderni e quindi dei contemporanei, potrà permettersi il lusso di prendere in mano la penna e provare a scrivere, regalando alla parola non solo il suo pensiero, ma anche una cifra letteraria che lo contraddistingua e faccia sì che la sua scrittura abbia un marchio personale, un timbro inconfondibile.

 

Ecco che il binomio lettura-scrittura, a buon diritto, potrà aspirare alla “trilogia” di lettura-scrittura-letteratura, facendo sì che chi scrive produca opera degna veramente di essere letta. Esistono laboratori di scrittura che potranno insegnare espedienti tecnici, affinare il linguaggio, ma l’originalità e il colpo d’ala che fa volare alto, nessuna scuola potrà insegnarlo.

 

Può una scuola far diventare tenore chi semplicemente canta intonato?

 

E pittore chi sa tenere decentemente il pennello in mano?

 

Per essere scrittori di pregio non basta saper scrivere, è indispensabile quella “marcia in più” che fa uscire dal gregge, emergere, distinguersi, restando nel tempo, come dei nobili sempreverdi.

 

Detto questo, non vi è nulla di male a scrivere e pubblicare, comunque, anche non essendo dei Proust, dei Kafka o delle Yourcenar (altrimenti solo Montanelli avrebbe potuto fare il giornalista o solo Giuseppe Tomasi di Lampedusa lo scrittore) purché – almeno – si rispetti l’ortografia e l’uso del congiuntivo, dimenticando l’accento sui vari qui e sta e fa e bevendo un tè senza l’acca in mezzo…

 


[1] Proust Sulla lettura (cfr. p.32), Mondadori, Milano, 1995

 

 

Il segreto del rimprovero

 

Alla luce di ricerche scientifiche, sembra proprio che sgridare solletichi le cellule cerebrali del divertimento. Siete giù di morale, depressi, annoiati? – vi chiedono gli scienziati – provate a riprendere chi sta sbagliando e vedrete quali vantaggi ne trarrete in fatto di sollievo e benessere interiore.

 

È Dominique de Quervain (come apprendiamo dal Corriere della Sera dello scorso venerdì 27 agosto), serissimo studioso dell’università di Zurigo, che ha pubblicato molto su importanti ricerche genetiche inerenti la memoria e le cellule cerebrali, ad informarci delle sue prodigiose scoperte. Ad interessarlo in particolare è quell’area del cervello associata alla soddisfazione e al divertimento. E il nostro uomo di scienza non credeva che quest’area si potesse attivare anche durante un rimprovero. E invece ne è venuto fuori che rimproverare procura soddisfazione, garantito dagli strumenti usati durante l’esperimento. I risultati appariranno pubblicati su Science da cui si apprenderà che un gruppetto di persone, a cui erano state destinate sommette di danaro da far fruttare in un gioco a coppie, avevano facoltà di rimproverare il partner in caso di errore, qualora gestisse i soldi in modo improprio o dannoso. Rimproverare il partner era solo una possibilità, non un obbligo. Ne è risultato che nessuno dei partecipanti ha rinunciato alla possibilità della sgridata e che proprio durante il rimprovero gli si accendeva quell’area spia del piacere e della soddisfazione., sempre la stessa che si attiva anche quando si compensa qualcuno per un buon comportamento, complimentandosi con lui. Sembrerebbe contrario alla logica, ma gli estremi combaciano, gli opposti qui si toccano. Addirittura, a quanto riportano i risultati dell’esperimento, si scatenava un sottile piacere della vendetta.

 

La scoperta del rimprovero è dunque destinata a rivoluzionare anche alcune teorie economiche, proprio perché il gioco del rimprovero era basato su scelte mirate a scopi economici, quindi calcolatrici, dunque razionali, in teoria. Ma la verità è che non vi è nulla di razionale nel perdere danaro, pur di provare il piacere di fare un rimbrotto, tanto che ci viene in mente quello che se li tagliava (gli attributi virili) pur di fare dispetto a sua moglie…Scherzi a parte, de Quervain, proprio alla luce delle sue ricerche, è convinto che i risultati a cui è scientificamente pervenuto, potrebbero modificare alcune importanti teorie neuroeconomiche.

 

Quanto a noi, purtroppo non siamo scienziati, quindi non abbiamo mezzi per verificare o contrastare, però non possiamo tacere il fatto che ci piacerebbe entrare in qualche osteria campagnola polesana dove ancora gli uomini giocano la briscola o il tresette, o qualcosa di simile, per verificare se veramente il perdente a causa di errori del partner, trae piacere dalla litigata e dai rimproveri che gli fanno perdere la partita.

 

Ho sentito giocatori di bridge – e lo so bene perché ne ho in casa – accapigliarsi e insolentirsi, come se l’esito del gioco fosse questione di vita o di morte. Sarà opportuno indagare quale livello di piacere ne hanno ricavato e se è vero che «i soggetti nei quali si attiva maggiormente l’area cerebrale del piacere sono assolutamente i più inclini a non curarsi del costo maggiore sborsato per “punire” il colpevole». Purtroppo, il bridge non farà al caso nostro, qui il danaro non c’entra, chi lo pratica non è spinto dal guadagno venale. In questo caso, siamo “fuori gioco”.

 

Stamani – nell’ inserto libri – L’Arena ha pubblicato le mie recensioni di Troppo amore – nuovo romanzo di Almudena Grandes – e di Profumi, giochi e cuori infranti, opera di Joanne Harris. Se vi fa piacere, potete leggerle di seguito qui sotto.

UN FATALE TRIANGOLO D’AMORE

 

Da Le età di Lulù – celebre romanzo scandalo di Almudena Grandes, da cui Bigas Luna ha tratto un grande film, con Francesca Neri – l’autrice, pur mantenendo la sua forte vena erotica, sembra aver fatto passi avanti, in un cammino di indagine psicologica più sottile ed intimista, sorretta da accenti più decisi e profondi.

 

Ed è Guanda, nella bella traduzione di Roberta Bovaia, a portare in Italia, per noi, Troppo amore, il nuovo libro della scrittrice spagnola, pagine sensuali più che mai, seppur scritte con la consueta capacità della Grandes, di regalare naturalezza anche alle situazioni più assurde e lontane dalla morale comune. Qualità – questa – che ci sembra portare una marchiatura fortemente iberica, visto che spesso, anche nei film di Almodóvar, abbiamo avuto modo di rilevarla.

 

In questo nuovo esempio letterario – in Troppo amore – tutta l’azione è chiusa dentro un triangolo amoroso vissuto a tre, ovvero tre corpi, intelligenze e cuori, con relative emozioni, come se fosse il consueto, scontato binomio di sempre.

 

«Era il 1984, e noi avevamo vent’anni, Madrid aveva vent’anni, la Spagna aveva vent’anni, e ogni cosa era al suo posto.» Questa è la frase sintesi della situazione di allora, del mondo della movida che fa da sfondo alla narrazione.

 

A riportare a galla i ricordi di quel lontano vissuto è una telefonata che annuncia a Maria José Sánchez la morte di Marcos, uno dei due giovani artisti con cui ha vissuto l’anomala storia d’amore. Ed è proprio Jaime, l’amico di Marcos a recarle la luttuosa notizia. Il passato la invade, a questo punto, come una fiumana impossibile da arginare e tutta la passione di allora, negli anni della sua prima giovinezza, per l’arte, per l’amore e per il sesso, che è poi per lei e i suoi due compagni, passione sfrenata per la vita, balza fuori prepotente dalla pagina e ci viene incontro, riscaldando le nostre fantasie. A questo proposito, non possiamo esimerci dal chiedere a noi stessi, pur consapevoli di restare senza risposta, fino a dove sia naturale la vena di queste scrittici definite erotiche e quanto invece propendano a calcare la mano, proprio per stuzzicare le curiosità nascoste di lettori alla ricerca di nuove emozioni.

 

Tornando comunque alla trama, Jaime e Marcos sono due vecchi amici, compagni di studio all’Accademia di Belle Arti, egualmente innamorati dell’affascinante Maria José, imprigionati dallo stesso groviglio di lenzuola di un letto che li accoglie insieme, complice dei loro scatenati incontri, in un’atmosfera fumosa, intrisa di alcol, acquaragia e hashish.

 

Ma il tre è un numero pericoloso, elusivo, per certi versi fatale, come poi dimostra di essere nell’epilogo del romanzo, quando il terzetto non è più così compatto, e – alternativamente – i due ragazzi vorrebbero l’innamorata tutta per sé, riducendo a duetto il loro ménage. Eppure, sembrava indissolubile questo loro sodalizio amoroso che li aveva indotti a risolvere insieme anche blocchi sessuali e sensi di colpa, dove Jaime sembra essere sempre il più forte, maturo e vincente, Marcos, artista di più spiccato talento, anche il più avvenente, dotato della bellezza di un «arcangelo» e Maria José, oggetto-soggetto d’amore tra i due.

 

«Era troppo amore. Troppo grande, troppo complicato, troppo confuso, e azzardato e doloroso. Era tutto quello che potevo dare, più di quanto mi convenisse. Per questo s’infranse. Non si esaurì, non finì, non morì, semplicemente s’infranse, crollò come una torre troppo alta, come una scommessa troppo alta, come un’aspettativa troppo ambiziosa.»

 

Alla fine, i due sopravvissuti si incontrano al funerale dell’amico suicida, eppure, in quel momento, sembra quasi ricomporsi per un attimo, in maniera surreale, lo spezzato triangolo: «Rise lui, risi io e immagino che anche Marcos, dal sedile posteriore, lo abbia fatto. Era passato parecchio tempo, ma a nessuno dei tre sfuggiva che Jaime e io, da soli, non saremmo mai andati da nessuna parte.» (g.g.)

Almudena Grandes Troppo amore Guanda pp.166 € 13

NEI GIROTONDI DI FANTASIE DI JOANNE

 

Chi ha gustato il delizioso Chocolat – uscito dalla penna di Joanne Harris, poi tradotto in film di grande successo -, certo avrà preso in mano Profumi, giochi e cuori infranti della stessa autrice, con molte aspettative, come si usa fare quando si è apprezzato il libro piacevole di un autore e si spera di trarre dalla nuova lettura altrettanto godimento. Con questo non vogliamo dire che la raccolta di racconti della brillante inglese sia una delusione, però – pur essendo la sua ancora «una scrittura di grande godibilità», come afferma l’«Observer», questa volta l’incanto è meno totalizzante, sarà anche perché, trattandosi di racconti, non in tutti abbiamo trovato identica misura di fascino.

 

Certo, la Harris è molto simpatica, lo è anche quando – intervistata – parla di se stessa, con briosa semplicità, senza spocchia, con vera naturalezza. Nata nello Yorkshire da madre francese e padre inglese, dice: «Essendo figlia di due culture in un ambiente non certo cosmopolita, ero una bambina un po’ isolata, e quindi ho imparato in tenera età a cercare una via di fuga nei libri e nella scrittura di storie. I miei primi dieci anni di vita li ho trascorsi in uno stato quasi perenne di fantasticherie, avendo come compagni personaggi fantastici e immaginari.» Non nasconde i suoi insuccessi «come ragioniera e musicista», e la sua poca propensione a fare la massaia; insomma va da sé che il suo destino era quello della scrittura e ha fatto bene a seguire questa sua naturale inclinazione. Ha interessi molteplici che vanno dal giardinaggio, all’occultismo, alla danza, al cibo che supponiamo sappia anche cucinare con gusto, visto che in passato ha pubblicato pure un ricettario di successo.

 

E il fiore delle fantasticherie di Joanne si fa pieno frutto proprio nei suoi racconti, quando ci parla de La sorellastra di Cenerentola, invertendo la morale della favola, o quando ci propone le disavventure di un insegnante – Mr.Fisher – metodico, con pochi mezzi economici che «aveva usato la stessa vecchia cartella di cuoio per oltre quarant’anni, ed era ancora in buone condizioni, seppure consunta e con le cuciture allentate per i diecimila, centomila temi d’inglese…». Povero professore, proprio quando ha trovato nel tema di un alunno un’ispirazione per scrivere qualcosa di sensazionale – rubando l’idea all’allievo, ovvero l’ «Ultima Storia», qualcosa di «assolutamente originale» – è tradito da una scucitura della cartella che gli fa perdere il prezioso bottino. E sarà la polizia a rintracciarlo, mentre scava disperatamente nella neve, con l’ostinazione di un cercatore d’oro, «gli occhi stravolti, la faccia livida, che borbottava febbricitante fra sé e sé.»

 

I temi di Profumi, giochi e cuori infranti, spesso hanno il sapore del surreale, se non addirittura del pazzesco e qui sentiamo tutto il divertimento della scrittrice che tira la corda dell’ispirazione fino all’estremo, giocando con le sue invenzioni per portare anche noi dentro i suoi girotondi di fantasie, dove incontriamo streghe di provincia e croniste mondane, animali umanizzati (uomini-lupo), giovani sposi in catastrofica luna di miele napoletana, ma anche due deliziose vecchiette ospiti di una casa di riposo. Ed è su queste due figure femminili che vorremmo soprattutto fermare l’attenzione perché Faith e Hope ci sembrano essere i personaggi più riusciti e toccanti dell’intera raccolta. Così piene di ingenui desideri inadatti al loro stato – secondo la logica comune – avrebbero affascinato Frank Capra. E anche a noi regalano un momento di divertita tenerezza, quando si concedono una “zingarata”, fuggendo dalla casa di riposo per avere un giorno d’evasione, paralitica in carrozzella l’una, cieca l’altra, comunque in grado di cavarsela e di raggiungere, almeno in parte le mete che si erano prefisse, lasciando per noi, alle loro spalle, una tenue traccia di profumo: quello della rosa bianca che alla fine della loro breve fuga hanno ricevuto in dono. (g.g.)

 

Jooanne Harris Profumi, giochi e cuori infranti Garzanti pp.248 € 14,50