Archive for gennaio 2012

Sette note musicali

Una storia per nota In sette spartiti i ritmi dell’assurdo

IL LIBRO. Zoran Zivkovic ispirato dalla musica
Racconti visionari da Belgrado dal maestro premiato del Fantasy

29/01/2012

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Zoran Zivkovic

Non fa meraviglia che Zoran Zivkovic abbia vinto il World Fantasy Haward con il suo Sei biblioteche, visto che il successo di questo scrittore di Belgrado un po’ visionario e molto sui generis, trova ora conferma nella sua nuova silloge di racconti Sette note musicali (Tea, 137 pagine, 10 euro, traduzione dal serbo di Jelena Mirkovic e Elisabetta Boscolo Gnolo). La specialità di questo bizzarro autore di brevi racconti, fulminee istantanee del surreale, consiste nella normalità apparente con cui sa trasportarci in un mondo parallelo. Ciascuno dei sette racconti della nuova raccolta sembra, e qui sta lo stuzzicante paradosso, trovare compiutezza proprio in un finale aperto dentro cui possa spaziare la nostra incuriosita fantasia. IL TITOLO della raccolta, Sette note musicali, già ci fa comprendere l’importanza della musica, vero collante di tutta la narrazione, pronta a suonare fra le righe e soprattutto sopra le righe della scrittura apparentemente semplice di questo autore che tiene nella sua città natale anche corsi di scrittura creativa a cui, supponiamo, sarebbe molto divertente partecipare. Nell’incipit incontriamo un maestro di bambini autistici ai quali fa ascoltare il Concerto numero 2 in fa minore per pianoforte e orchestra di Chopin. L’ascolto produce un’emottisi a un piccolo allievo, che sul suo foglio da disegno scrive una serie di numeri apparentemente insensati. Un amico matematico rivelerà in seguito all’insegnante che quei numeri indicano «uno dei valori fondamentali della natura: la costante di struttura fine». Che il piccolo Philip possa essere inconsapevole rivelatore di qualche astruso messaggio? Zivkovic, come sempre, lascia a noi la soluzione dell’enigma. Nel secondo racconto la musica si fa Cassandra di un incendio prima fantastico e poi reale. Nel terzo, la musica di un carillon crea al protagonista la facoltà di viaggiare dentro un tempo dell’assurdo. Quindi, un organetto di un clochard sa predire il futuro. Proseguendo nella scombussolante lettura, siamo toccati dalla dolcezza di un violino capace di condurre un uomo oltre i confini della morte. Nel settimo racconto (dentro cui abitano i fantasmi dei precedenti protagonisti) i «suoni dell’armonia celeste» sono fatali a un liutaio. Scorrevoli, pur nella loro surrealtà, le sette brevi storie sembrano uno spartito metafisico, non alieno da tocchi filosofici, appena sussurrati tra una nota e l’altra. Inquietanti quanto basta da farci pensare che sarebbero piaciuti ad Alberto Savinio che di surrealismo e giochi dello spirito era un raffinato intenditore.

Grazia Giordani
Pubblicato oggi, 29/01/2012 in Arena, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi

La donna ideale? È un fantasma e si chiama Amelia

La donna ideale? È un fantasma e si chiama Amelia

IL LIBRO. «Se fosse per sempre», edito da Nord
Atmosfere da cinema alla «Ghost» nel romanzo di Tara Hudson

25/01/2012

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Tara Hudson

Chi si è commosso alla vista delle scene tanto toccanti quanto surreali del celebre film Ghost, Patrick Swayze e Demi Moore protagonisti, ritroverà parte di quel clima iperomantico nel romanzo “Se fosse per sempre” dell’esordiente Tara Hudson (Editrice Nord, 360 pagine, 18,60 euro, traduzione di Paola Bonini). Fin da ragazzina, l’autrice, nata e cresciuta in Oklahoma, è stata una gran lettrice di storie di fantasmi. Da questa sua propensione è nata la sua opera prima, salutata da un grande successo internazionale. Forse perché c’è una certa parte di lettori, soprattutto fra i giovani, orientata verso il genere fantasy, dove tutto può accadere. Subito, nell’incipit, incontriamo Amelia, morta diciottenne, che da molti anni si aggira inquieta sulla riva del fiume. Ha perso la cognizione del tempo e nulla ricorda del suo passato. Non sa più niente dei suoi familiari e del suo stesso cognome. Insomma, una perdita d’identità assoluta. Sa rivivere solo l’angoscia della propria morte, crede per annegamento, inghiottita dalle acque del fiume. Un giorno, improvvisamente uscita dalla sua solipsistica situazione, si accorge di un ragazzo che sta annegando e lotta per sopravvivere. Decide di aiutarlo. Come per magia, il giovane, superando la situazione di pericolo, si dirige verso Amelia: la vede e ne sente la voce. In quell’istante, l’infelice ragazza capisce di non essere più sola, avendo trovato qualcuno di cui fidarsi, oltre a tutto disposto a scoprire chi l’ha uccisa, sfidando le forze oscure che incombono e che la stanno minacciando. Piacerà, si diceva, questa scrittura sentimentale e immediata a chi privilegia gli amori impossibili che fanno evadere dal grigiore del reale e a chi ama tuffarsi nel mistero che accompagna il lettore fino all’epilogo. L’allure gotica della presenza di fantasmi è stata molto presente nella letteratura dell’Ottocento. “Cime tempestose” di Emily Bronte ne è l’esempio più eletto, ma in quel caso abbiamo sconfinato nel pianeta della letteratura d’eccellenza. Il romanzo della Hudson, seppur gradevole, non ha di queste pretese, ma sa darci l’esempio di un tenero idillio tra la rincuorata Amelia e il generoso Joshua, quasi un sodalizio tra un uomo reale e una ragazza fantasma, divenuti inseparabili nella lotta contro nemici, quali spiriti maligni, sette di streghe e veggenti con capacità medianiche. Al di là del tono di favola nera, dobbiamo riconoscere all’autrice, di aver saputo regalare uno spessore si direbbe umano, se non fosse un fantasma, ad Amelia, protagon ista che appare dotata di una femminile delicatezza di sentire. Chissà quanti uomini reali gradirebbero incontrare, nella loro quotidiana esistenza, una fantasmina tanto sensibile e amorevole.

Grazia Giordani 
Pubblicato oggi 25 gennaio 2012 in Arena, Giornale di Vicenza 

Contre repêchage

Contre repêchage

Tecum vivere amem, tecum obeam libens – le aveva scritto sulla sabbia, preferendo dichiararsi con i versi di Orazio, piuttosto che con una frase banale. Aurelio era nemico dell’ovvio e del già troppe volte detto. Eppure, lei avrebbe preferito uno scontato «ti amo», parole d’amore meno complicate e – soprattutto – non scritte dove il vento le avrebbe presto sconvolte e cancellate. Tra qualche momento non le sarebbe più stato possibile leggerle. E questo pensiero la preoccupava, quasi sentisse in aria una catastrofe imminente.
E poi, perché nemmeno un bacio? Solo carezze lievi, appena accennate, quasi temesse di sciuparla, sciupando quel momento.
Aurelio viveva questo amore adolescente con una finezza esagerata, a giudizio di lei, bisognosa di un po’ di concretezza.
Quel liceale bruno, di raffinata cultura, portava in cuore soprattutto la loro prima passeggiata pomeridiana, lontano dalla spiaggia. Attraverso la pineta avevano raggiunto uno spiazzo con le giostre, venditori di zucchero filato e mandorle caramellate. Ne aveva acquistato un sacchetto, versandone parte nella mano di lei che, poi, aveva stretto dentro la sua. Le mandorle si erano sciolte, colando, appiccicose lungo le dita della ragazza. Ma, quella piccola ginnasiale, non aveva fiatato, timorosa di rompere l’incanto di un contatto così a lungo desiderato.
L’estate sfumò dentro nuvole d’ardesia, lavata da una pioggia che pareva voler lavare il mondo. E a lei parve che lavasse anche i sentimenti del ragazzo.
Poche lettere, troppo intellettuali e poco amorose suggellarono quella storia senza memorabili eventi.
Quella sera, a Milano, proiettavano il film “Ha ballato una sola estate”. La protagonista, Ulla Jacobsson, gli ricordò quella ragazzina, incerta, piena di ansie, che adesso avrebbe voluto rivedere. Aurelio era troppo preso dagli studi, dal bisogno di fare strada, guadagnare, vista la povertà della sua famiglia. Fece carriera universitaria alla facoltà di lettere. Si sposò con una brava ragazza conosciuta in fretta. Eppure, quel lontano amore acerbo aveva continuato a mantenere uno spazio nascosto nelle latebre sotterranee del suo cuore.
Un giorno gli parve di vederla riflessa nella vetrina di un libraio quella ragazzina del suo passato?
Possibile? No, non era lei.
Gli anni trascorsero tra alti e bassi, come la vita di molti di noi.
Chiamò la primogenita col nome di lei.
Silente omaggio, noto soltanto ai suoi ricordi.
Amava la primavera, anche quella milanese, sporcata dallo smog.
Nei pressi di casa c’era un giardino semiabbandonato dove spesso si dirigeva, spontaneamente, quasi spinto da un arcano richiamo interiore, una voce dell’anima, cui non sapeva sottrarsi.
Camminò fra i cespugli di rose sfatte, incespicò nel pietrame che sporgeva dal terreno dissestato. Si aggrappò ai rami di un alberello basso e rugoso. Barcollò, si riprese. Cadde senza speranza di salvezza. Ebbe una visione fulminea di quel lontano passato, mentre sul cuore gli brillava il rubino di una rosa.

Grazia Giordani

Repêchage

Repêchage

Un petalo di rosa le lambì una spalla, trascinando con sé a terra tutta la sfatta corolla. Passeggiando in un giardino quasi abbandonato, le parve un fatto di nessuna importanza. E invece, no. A volte, nei meandri della vita, si nascondono segnali a noi stessi ignoti, pieghe oscure, dense di passato.
La carezza involontaria della rosa agonizzante, operò un rêpechage di gesti d’amore passati che riteneva sepolti dall’oblio del tempo. Proprio nella stessa stagione, un’identica primavera ubriaca di profumi, Aurelio, il primo ragazzo ad accorgersi di lei, le aveva accarezzato la spalla, con mano incerta, e poi il collo, facendola fremere con sofferenza. La sofferenza dell’attesa di un gesto più ardito, di una bacio sulle labbra. Quel bacio era rimasto solo sognato, pensato, vissuto come un credito mai riscosso. Forse il bacio più bello, anche per questo. Come le carezze che – più avanti negli anni – aveva visto scorrere sulla schiena setosa del suo micio. Come avrebbe voluto entrare sotto quella morbida pelliccia, per sentire il tocco sinuoso di quelle mani che la stavano ignorando.
Tra sogno e realtà, la sua vita finì con l’acquistare qualche stravagante concretezza.
Nubile, si dette tutta alla professione. Esordì in giornali di provincia, per toccare il massimo dei traguardi nel primo giornale milanese. Conobbe amori veri, fatti di carne, ma sempre deludenti.
Scrisse romanzi. Pubblicò racconti in riviste specializzate.
Una sera, seduta in prima fila ad ascoltare Ivo Pogorelich che eseguiva, da virtuoso Ma mère l’oye di Ravel, a quattro mani con un’esile biondina, cominciò ad invidiare la giovane pianista che godeva della vicinanza di quel bellissimo re del pianoforte. E pensò che le sue mani si sostituissero a quelle della giovane croata, elettrizzate dal contatto col maestro.
Tornata a casa, prese a frugare tra vecchi suoi racconti scartati, quelli dell’adolescenza, mai dati alle stampe.
Ecco, ritrovò Aurelio e la storia del suo debito insoluto, la vicenda sensualissima di quel bacio solo spasimato.
Era milanese, pensò.
Provo a cercarlo.
Avrà famiglia, figli, nipoti.
Voglio solo donargli il mio racconto.
Forse ne rideremo insieme.
Il nome brillava, sornione, sulla pagina bianca dell’agenda telefonica e, a fianco, invitante il numero.
Non c’era che da digitarlo.
Rispose una voce di donna, spenta, senza accento.
(Che sia la moglie? Metto giù la cornetta….)
«Signora, scusi, sono un’amica quasi d’infanzia, insomma, di lontana giovinezza, di Aurelio. Abita qui? È in casa adesso? Vorrei parlargli di …»
– Mi spiace. Mio marito è morto l’anno scorso.
Un fulmineo, terribile malore, lo colse mentre camminava in un giardino semiabbandonato di questa squallida periferia.
Grazia Giordani


Le amiche

Le amiche

Erano già ferme ad attendermi al casello dell’autostrada est. Riconobbi subito Gloria, avvolta nel golf di lana d’Irlanda che le avevo portato da un viaggio invernale. Una strana illusione ottica creava un’aureola chiara, attorno al suo volto, quasi dal di dentro emanasse lei stessa una luce. Luisa era alta, come mi era stata descritta, atletica nella figura, lo sguardo mite della donna dolce e remissiva. Una strana coppia, la mia amante e l’amica, che prometteva un singolare incontro a tre. Avrei dovuto superare un insolito esame: volevo far colpo su Luisa, per piacere sempre di più a Gloria: un gioco sottile, piacevolmente perverso, fatto di elucubrazioni amorose, sommerse dentro la psiche. Mi ero “premurato” di fare le cose per benino: la Volvo pulita a fondo, all’interno era lucida come un salotto. Avevo acquistato, un po’ riottoso, due rose rosse da offrire alle mie ospiti. Per Gloria avevo sempre colto fiori di bosco, fasci di ginestre o ireos, legati in rustici mazzetti, che le piacevano tanto e la mandavano in “visibilio”, come amava dire, ridendo con la testa riversa sulla mia spalla. Si stabilì subito un clima di confidenza, un triangolo di cospiratrice amicizia, rinsaldata dalla pace del ristorante, perso tra il verde ormai bruno della collina, pronta ad indossare gli abiti dell’autunno. Le avevo di fronte a tavola, femminilissime,  sempre più sciolte. Le scrutai bene. Gli occhi di Luisa, senza lampi di malizia, facevano da controcanto – come note in sordina –  ai lampi bruni dello sguardo di Gloria, reso obliquo da un ammiccante strabismo. Stuzzicai la mia donna con galanterie rivolte all’amica. Mi piaceva l’atmosfera ambigua, il sapore un po’ torbido di trasgressioni soltanto pensate. Mi sarebbe piaciuto chinarmi a toccare le ginocchia delle due donne così dissimili e così unite, slacciare le loro camicette, incespicando nell’impedimento di asole e bottoni. Mi accontentai di pensarle, queste azioni, in una luce di acquario, resa verde dal riflesso del fogliame fuori dai vetri. Pensai al segreto delle loro cosce così chiuse e composte sulla seggiola, caldi misteri di carne. Masticavamo all’unisono, “rullandoci” i bocconi dai piatti, la gola stuzzicata dal gelo dello champagne, legati da un’amicizia strana, quasi ubriacante. Le loro mani così diverse, per forma di unghie e di dita, furono rapide nello spalmare il rossetto sulle labbra ormai pallide, alla fine del pranzo. Era come dire: «È finita, missa est. Il momento magico è arrivato ad un irreversibile stop». Avrei voluto trattenerle, prolungare quel misterioso piacere, fatto di vellicanti equivoci. Le vidi ripartire esitanti, mi parve che anche il motore della loro auto avrebbe preferito restare. Furono inghiottite da una macchina chiara, squadrata nella forma. Tornai, pigramente, al lavoro, soffocando gli sbadigli di una digestione affrettata e di uno stacco troppo brusco da momenti piacevoli. Immerso nel progetto da consegnare all’architetto, non pensai più alle “mie ragazze”, come le avevo scherzosamente chiamate, nel corso dell’incontro.

L’indomani lessi sul giornale dell’incidente: un camion, uscito dalla corsia dell’autostrada, aveva rubato la loro ingordigia di vivere. Pensai: «Gloria non sarà mai morta del tutto. La porto dentro come un coltello che penetra una ferita e la fa sanguinare sempre più, come il profumo intenso delle ginestre che coglievamo insieme, lungo il pendio della collina, bruciata dal sole, come lo strazio dei suoi capricciosi abbandoni, dei suoi dubbi amorosi, tenere ossessioni. Non posso cedere ai rimorsi delle cose che non ho voluto dirle, del suo telefono muto, per i silenzi del mio». A Luisa, penso come a un’appendice di lei, a un mite ornamento di vita recisa. Chiudo gli occhi, e sento le mani lievi della mia donna, la sua piccola risata di perle, la sua corsa affannata per raggiungermi presto. Vedo brillare, nell’ombra, la macchia color porpora delle rose donate all’appuntamento: si mutano in due fiori di sangue, conficcati nel petto delle due amiche.Non voglio svegliarmi dall’incubo, meglio questa macabra fantasia, piuttosto che la realtà della loro morte, meglio la sofferenza di sogno, piuttosto che accompagnarle per l’ultimo viaggio. Non voglio vedere, non voglio sapere, mi piace imbrogliare me stesso, tuffarmi dentro un mare consolatore di fantasie, dove posso ancora passeggiare con Gloria in boschi di luce, stringerla nelle calli di una Venezia onirica, dai canali disseccati, baciarla contro il muro di una chiesa della memoria.Penso: «Se la separo da Luisa, torna viva, se rompo il gemellaggio delle loro esistenze, si frantuma l’incantesimo, e spero, spero con l’ostinazione di chi si aggrappa all’ombra triste di un’allucinazione».

 

Secondo finale

 

Furono inghiottite da una macchina chiara, squadrata nella forma. Pensai che era, in fondo, solo un arrivederci. Luisa avrebbe ripreso la sua vita di donna gentile, e Gloria – la mia Gloria – avrebbe continuato a regalarmi tutti gli spazi di esistenza che le era possibile serbare per me. Avremmo continuato all’infinito i nostri incontri furtivi ed eccitanti, momenti di un unisono d’amore che credevo esistesse solo nei romanzi.Piccola, deliziosa rompiscatole, subito domani mi avrebbe chiamato al telefono: già sentivo nell’orecchio la carezza della sua voce.

(g.g.)

 

Inquietudine

Inquietudine

Entrarono silenziosamente nella stanza i suoi piedi snelli, calzati da mocassini. Riverberi guizzanti di luce, filtrata dalle imposte mal chiuse della finestra, levigarono il pallore del suo viso. La sua mano, abituata a quella camera, cercò nervosamente l’interruttore. La chiavetta fece clic. Carte sparse per terra e sul divano d’angolo la meravigliarono subito. Edgardo era ordinato fino alla paranoia e non si sarebbe mai allontanato, lasciando un simile scompiglio alle sue spalle. Giaceva riverso, quasi nascosto dall’alta spalliera della poltrona, l’uomo con cui era vissuta per troppi anni. Dal ventre della cassaforte spalancata, uscivano altri documenti scomposti. Questo fu quello che vide, in un susseguirsi di piani cinematografici, e non provò emozione, solo stupore rivolto anche alla sua assenza assoluta di sentimenti.Aveva patito troppo in passato perché pietà e sofferenza la toccassero oggi.

Si avvicinò.

Sangue rappreso gli lordava la tempia e un rivolo vischioso aveva inzuppato il colletto della camicia. Si specchiò, senza volerlo, nel vassoio d’argento dove il morto, quando era vivo, raccoglieva le sue lussuose Mont Blanc di cui era gelosissimo («la moglie e la stilografica – usava dire – non si prestano mai»; ma lei era certa che avrebbe prestato con meno strazio la prima piuttosto che la seconda) e non si compiacque del suo stesso aspetto: era più morta del morto. Occhi spenti la guardavano indifferenti a se stessa.

E adesso, che fare?

Mentre sollevava la cornetta del telefono, forse per chiamare la polizia, uno sparo improvviso la freddò, secco e inaspettato, lasciandoci impotenti, e in preda a una fredda inquietudine,  ad osservare i due cadaveri. E mai sapremo i motivi del duplice omicidio. Ci allontanammo, in un gelida dissolvenza, attenti a non pestare la chiazza rubino scuro sul pavimento.

Grazia Giordani

La sorella

La sorella

Non l’avevo mai incontrato quell’uomo di bell’aspetto che tanto aveva fatto soffrire mia sorella, né lei me ne aveva mai parlato, prima della sua fine, tutta sola nel cottage di montagna, rassegnata ad auto medicarsi le sue ferite, distrutta dai soprassalti del cuore, con in grembo quel venefico Dissolvenza. Eppure, vedendolo, capivo come si potesse perdere la testa per un uomo così, non solo per l’aspetto fisico che sprizzava virilità in modo naturale e non ostentato. Mi sono sempre piaciuti gli uomini di cui sento la forza, la decisione; in cui leggo nello sguardo e nel modo appena accennato di sorridere, una determinazione che potrebbe essere confusa con eccesso di autostima, pur essendo specchio di un clima interiore non del tutto imparentato con l’arroganza. Il mio compagno – di cui tanto avevo magnificato l’eccezionalità, con l’amica al telefono – mi apparve piatto, al confronto col siciliano così vitale e commosso, senza gesti plateali. Rimorso? Sì, forse ora si stava pentendo di aver rinviato l’incontro con la mia povera sorella maggiore tanto a lungo, al punto di distruggere ogni sua speranza ed aspettativa. Sembra assurdo dirlo, ma temevo e temo che dei due fosse proprio lui il più debole e il più pusillanime, nonostante le apparenze. Ci salutammo, imbarazzati, senza nessuna promessa di rivederci, mentre il mio compagno si avviava fuori , alla ricerca di un taxi. I miei giorni continuarono sereni, ritmati dal film della mia vita in bianco-nero. Chi non preferirebbe un’esistenza in technicolor, anche se pericolosa come quella di mia sorella che, mortificandosi dentro la speranza di un  amore impossibile, nei confronti di un  uomo non abbastanza maturo da amarla profondamente, aveva però goduto momenti di gioia superiore? Oddio, proprio io che sono sempre stata tanto razionale e coi piedi per terra, attaccata ad un uomo gentile, che non scorda mai i miei compleanni, che mi sposerebbe ieri perché domani è tardi, che previene i miei desideri, comincio a provare un transfert, un desiderio di sostituzione, nei confronti di un animale maschio, appena visto, per niente frequentato, di cui non so nulla e su cui posso fare solo illazioni, abbandonandomi a fantasticherie? Quella notte il mio sonno fu inquieto. I giorni ripresero a scorrere nel loro monotono ritmo, fatto di tanto lavoro, appuntamenti metodici per le mie maniacali cure estetiche. Ero ambiziosa e – non essendo colta come mia sorella, grande cultrice delle humanae litterae –, privilegiavo le cure del mio corpo:  palestra, buone creme per il viso, maquillage sapiente, abiti di sartoria. Sapevo di avere uno charme costruito a tavolino, mentre la mia sventurata consanguinea, era il fascino fatto persona, dotata di una voce così personale da creare fatate sinestesie. La sua risata era uno scroscio di perle gentili, le sue piccole rughe un irresistibile geroglifico di storie scritte sul suo volto, proiezione di pensieri che io pure avrei voluto carpirle.

Ero distratta, disamorata, disincantata ogni giorno di più.

Possibile che stessi innamorandomi di un uomo per interposta persona?

Proprio io, tanto razionale e terragna? Indossai il mio tailleur più glamour, quello che sottolinea la mia vita sottile e valorizza il mio corpo tanto curato. Maquillage leggero e accessori volutamente casual, mi fecero sentire una donna di classe, sebbene io sappia che lo stile dovrebbe essere un  fatto naturale. E mi avviai verso Via Solferino, nell’ ora in cui so che i giornalisti escono per un breve pasto affrettato. Sperando non fosse un suo giorno di corta, come si dice in  gergo, passeggiai avanti e indietro, sempre più perdendo le speranze. Decisa a tornarmene a casa, in compagnia della mia disillusione, lo vidi uscire in compagnia di una collega, dalla chioma fulva e lo sguardo ammiccante. Che speranza poteva avere il surrogato di un amore sofferto e ora condito da sensi di colpa? Mentre stavo per retrocedere, non sapevo più se delusa o sollevata per lo scampato pericolo, sentii la sua voce calda di meridionalità chiamarmi forte, in mezzo alla gente, purtroppo sempre, col nome di mia sorella. E sì che nell’ occasione del primo malinconico incontro avevo chiarito e ci eravamo spiegati.

“Scusami, è più forte di me, continuo a cadere in questo inganno . . .”

La rossa, intanto, aveva preso congedo, non so quanto seccata dall’insolita situazione.

“Pranziamo insieme? Con tua sorella andavamo sempre al . . .”

“Preferirei un luogo diverso. Non sono lei in nulla. Le somiglio solo perché ti ostini a vederla questa somiglianza. Non vorrei essere la cura dei tuoi sensi di colpa. Potresti fare molto male anche a me. E il mio compagno non merita un tradimento”.

“Sì, non lo merita, ma tu lo stai già tradendo. Anche in questo non somigli a tua sorella, per tua fortuna. Golosa della vita, sai che ogni lasciato è perso. Occhio non vede e cuore non duole.”

“Prendiamoci un giorno di vacanza. Milano, in primavera, è invivibile.”

“Non direi proprio . . .”

“Non ho trovato scusa migliore per convincerti a regalarmi qualche ora del tuo tempo.”

Non mi piacque telefonare al mio uomo accampando la scusa di un impegno improvviso, ma la pennellata di technicolor, subentrata quando meno me l’aspettavo, ebbe la meglio sulla mia buona coscienza. Viaggiammo in  silenzio, divisi tra la felicità e lo scontento.Una casetta tuffata dentro la pineta ci accolse, complice. Sembrava una casa di bambola. Inquadrato dal rettangolo di una piccola finestra, quell’ uomo rubato post mortem alla mia povera sorella, certamente aveva seguito, in anni passati – chissà con quante altre donne – il mutamento delle stagioni, ritmato da rose in boccio, poi roride corolle, quindi petali sfatti, come presto o tardi sarebbe diventata la mia vita, fatalmente, come accade alla vita di tutte, anche a quella delle donne più ambiziose.Tutto si svolse secondo manuale. Perché resistergli dal momento che mi ero lasciata portare nel suo buen retiro? Mi prese senza tanti preamboli e mi piacque.

Non è il caso di perdersi in ipocrisie.

Appoggiata al davanzale di quella complice finestra, carezzata da un refolo fresco, tentavo di fare il punto sulla situazione, cercando di immagazzinare nell’olfatto il profumo di quella stanza dove non avrei mai più messo piede, ne ero certa. E nell’udito volevo si coagulasse la ruvidezza erotica del suo dirmi: “sei tutta piena di me”. Sì. Lo ero in carne e pensieri. E l’avrei portato per sempre dentro il mio sleale immaginario, impresso come un timbro. Ormai ero marchiata dalle sue parole suadenti (“Sai di miele e di pepe” – mi aveva detto). Ma fuori c’era l’aria pulita e l’alba di perla avrebbe mitigato i miei tardivi sensi di colpa. Si vedeva a malapena il mare, attraverso la trina scompigliata degli aghi di pino e si poteva immaginare lo sciabordio delle onde, frangersi nella battigia. Russava piano. Dormiva soddisfatto dalle sue maschie prove di potenza. Questo era il momento di interrompere per sempre il film a colori. Mi rivestii in fretta, quasi senza lavarmi, per non  svegliarlo. Il pullman delle sei, trovato, per caso sul piazzale, mi condusse a Bologna, lasciandomi alle spalle scampoli di giardini abbandonati, spicchi di mare sempre più chiari, ragazzi con marsupi pieni di libri, donne normali che si recavano a fare la spesa. Gente qualsiasi, contenta di sopravvivere. Scesi a Milano, tutta sgualcita in abiti e pensieri. Dalla finestra di casa mia filtrava una pallida lama di luce, come se il mio compagno avesse dimenticato di spegnere l’abat jour.

La mia chiave entrò rapida nella toppa.

“Caro, sono tornata. “

Ora la mia vita avrebbe ritrovato il rassicurante tran tran del film in bianconero.

SECONDO FINALE

 

Vidi con orrore le sue valigie in corridoio.

“Caro, io torno e tu parti?”

Forse, al mio film sarebbe rimasto, ora, soltanto il nero.

 

Dissolvenza

DISSOLVENZA

Ci sono voci così luminose che brillano nel buio di una stanza. Proiettano intorno a sé ventagli irregolari di luce ora più fioca ed opalescente, ora forte come un lampo improvviso, a seconda del volume che le caratterizza nel corso della conversazione: alle vocali aperte, soprattutto a quelle, corrisponde un fascio luminoso più intenso e persistente. Ho notato questo fenomeno ottico il giorno in cui ho cominciato a sentirla al telefono, non dico ad ascoltarla, perché l’ho proprio sentita. Non avevo notato questo fenomeno al nostro primo fortuito incontro, che pure aveva già del prodigioso, perché – ancora prima di conoscere la sua persona – mi aveva colpito la sua sagoma riflessa nella vetrina del libraio sotto casa mia. All’improvviso, tra il volume Saggi, Prose, Racconti di Virginia Woolf e un atlante aperto sul polo Sud, si era inserito il suo volto dai lineamenti irregolari ed allusivi, un viso interessante, pur non essendo bello nel senso classico, secondo i canoni della bellezza tradizionale: qualche ruga lieve contornava lo sguardo maliziosamente obliquo, le labbra rosse come il frutto del peccato, avevano sapore di provincia; guardata di profilo, mostrava un naso lievemente aquilino che regalava un contrastante tocco di nobiltà al suo volto. Da un piccolo turbante nero usciva un accenno di chioma riccia e mesciata, capelli ribelli che amavano andarsene per conto loro. Certamente, mentre io osservavo la sconosciuta, anche lei guardava me e – seppi poi – notava la mia chioma precocemente incanutita («se sapessi come ti regala fascino!») e non restava indifferente al «lampo dei prati in primavera» – così si espresse in seguito – dei miei occhi verdi così spesso lodati dalle donne, da rendermi ormai indifferente alla loro ammirazione. «Anche lei ama Virginia Woolf?» – mi chiese nel più naturale dei modi. Avevo fretta di correre in redazione al giornale e – seppure incuriosito da quella signora niente affatto banale – non ero disposto al pour parler, a quei discorsi che intrecciamo in treno o mentre aspettiamo il tram o durante una rapida corsa in ascensore, tanto per dire qualcosa, speranzosi in seguito di “rimorchiare”: non abbordo mai sconosciute per la strada, né mi lascio abbordare. Eppure la voce mi uscì dalla gola, nonostante me stesso, lasciandomi meravigliato per primo.

«Posso offrirle un caffè?»

Non rispose nemmeno e mi prese sottobraccio, come se ci conoscessimo da sempre, come se fossimo vecchi amici che si ritrovavano, dopo una lunga pausa d’attesa.Eppure non aveva nulla di equivoco o di pericoloso. Sentii un’immediata attrazione per lei, quando si tolse la pelliccia, all’interno del bar, e la gettò sulla spalliera di una seggiola: il suo seno forte, sottolineato dalla giacchetta blu, fermata da tre grossi bottoni, era un richiamo ancestrale, un morbido cuscino di delizie su cui avrei desiderato abbandonare subito la testa, sognando un po’ di mamma e un po’ di amante in un’unica edipica fantasia. Il caffè era caldo e forte, la sua voce mi entrava dentro, me ne appropriavo, prendeva spontaneamente a far parte di quell’archivio sonoro, proprietà di tutti noi, per cui ci basta quasi uno starnuto – un fulmineo eccì – di una persona nota, oppure un sintetico , per sapere subito di chi si tratta.Scoprimmo – quasi sovrapponendo le nostre voci, nel frenetico parlare -, di avere un’ origine isolana comune. Parlammo di Pirandello e Sciascia, di Tomasi di Lampedusa e di Lucio Piccolo, dell’’mpanata di agnello, delle panelle palermitane, degli arancini di riso, dell’intertestualità di Garcia Marquez. Litigammo blandamente su Proust che lei adorava e io trovavo e trovo stucchevole; ci riconciliammo sul caciocavallo ragusano e su Milano «capitale del capitale».Era bibliotecaria in una piccola città del Veneto, per questo amava tanto i libri, almeno quanto li amo io.Ci scambiammo i numeri di telefono. La giornata passò senza intoppi. La pagina, al giornale, mi riuscì soddisfacente per equilibrio nei contenuti e nell’eleganza grafica. Pranzai con un’amica di vecchia data, risposi a parecchie telefonate. Ricevetti rassicurante conferma che il mio ultimo saggio sarebbe uscito prima di Natale: una routine senza scossoni e senza brutte sorprese.Le ombre della sera si coagulavano liquide ed insidiose dietro i vetri della finestra; il volto di una collega che vi si specchiava, passando, mi rimandò un rapido flash della sconosciuta con cui tanto rapidamente ero entrato nell’orbita delle «affinità elettive», quelle per cui una persona che ad altri può apparire insignificante, a noi parla un linguaggio speciale ed ineludibile, un richiamo a cui non vogliamo sottrarci.La sera stessa la chiamai al telefono. Ero sdraiato nel divano del salotto, in penombra e avevo voglia della sua voce «interna». Notai subito quei fasci, ora sfatti in un’opalescenza che poteva accendersi in luci più intense, e ne provai un godimento interiore di rara natura. Ripensai sensualmente a quei tre bottoni sul suo petto, chiusi da un’asola che si poteva facilmente aprire.M’invitò nel suo cottage in montagna. La raggiunsi dopo una settimana, e finalmente slacciai, non solo con la fantasia, quegli ostili bottoni, divenuti docili, sotto la stretta delle mie dita. Il paesaggio da cartolina natalizia era persino troppo oleografico per essere veramente di mio gusto: candore di neve abbagliante, caminetto acceso con fiamma purificatrice, pranzetto al lume di candela. Detesto la banalità, gli auguri di buoncompleanno, le frasi fatte, il déjà dit, lo scontato comunque.«Preferiresti la pioggia? Una casa fredda? Un’amante che ti resiste e ti fa faticare a sedurla?»Non le risposi. Ero comunque contento di essere lì, anche se un po’ troppo avviluppato, forse, dalle sue effusioni, pur tuttavia non ero scontento del farla così felice. Suvvia, devo ammetterlo, anch’io stavo bene con lei. Avevamo molte cose in comune.Da Milano le mandai un biglietto – assieme al mio ultimo libro, odoroso di stampa fresca. «Ho sepolto il mio cuore dentro le vecchie mura» – le scrissi. Sapevo che amava Quasimodo e che avrebbe gradito il mio messaggio, non meno del libro che commentò in una dettagliata lettera in cui non sapeva più se lodare maggiormente «l’eleganza della prosa vaporosa o lo spessore dei contenuti umanissimi, per non parlare dell’originalità di orizzonti che sapevo aprire davanti agli occhi dei lettori».Non sapeva solo coccolarmi, sapeva a sua volta scrivere, e questo me la rendeva più vicina.  Il giornale mi chiamava a gran voce. Sul tavolo mi attendeva una pila di articoli da “passare” – come diciamo noi in gergo – e un saggio irto di difficoltà, sul “caso” del «Gattopardo» da recensire. Il telefono squillava in continuazione, la segreteria era affollata di messaggi, la schiena mi faceva male, i grovigli della vita mi si abbarbicavano addosso.Avevo voglia di stare un po’ da solo e soprattutto di stare in pace.  Passarono i giorni. Anche le notti.

Feci un sogno terribile, peggio di un’allucinazione. Nel cuore della notte appresi da un quotidiano che la mia ormai conosciutissima – e da me un po’ trascurata sconosciuta – era morta. Ma come? In che modo? Nel letto mi agitai febbrilmente. Mi vidi affannosamente in viaggio per andare nella sua piccola città. La corsa in macchina fu affannosa. C’era la nebbia. Un sudario felpato e inquietante rendeva evanescente la realtà intorno a me. Sembrava salire dal serpente liquido – un sinuoso canale che tagliava in due la città. Le vie erano deserte. All’improvviso vidi un corteo scuro con una bara davanti portata a spalle; nell’aria fluttuavano nastri d’argento, come virgole di luce: sopra  vi si distingueva appena un’illeggibile scritta.Mi svegliai tutto sudato. Dopotutto era stato solo un sogno. Mi tornò la voglia della sua voce luminosa, delle sue parole tenere che io non contraccambiavo mai. Che bisogno ce n’era? Se le telefonavo, non significava che la stavo pensando? Che bisogno c’era di leziose banalità? Oddio che lagna le donne con questo loro bisogno di “infiorare” tutto, di “romanticizzare” anche gli avvenimenti più naturali della vita!

Uscii fischiettando, ancora felice di avere soltanto sognato.

Nella “nostra” vetrina – intendo quella del libraio – la vidi di profilo: sulla mezza fronte i riccioli erano scompigliati in un’arruffata frangetta che la ringiovaniva, la mezza bocca, eccezionalmente senza rossetto, era atteggiata a sorriso e così l’unico occhio che mi era dato vedere, sprigionava serenità. Sollevò una mano – voltandosi di faccia – nel consueto gesto di accarezzarmi una guancia. Mi volsi per abbracciarla, ma di spalle non avevo nessuno, o meglio solo un gattino grigio stava attraversando la strada in una lenta, onirica dissolvenza.

 

 

* * *

 

Sono passati molti anni, ormai. Continuo la mia vita di redazione: le piccole beghe con i colleghi, qualche amore occasionale, ancora saggi pubblicati, libri altrui recensiti, viaggi tra Milano e l’isola, spicchio di «irredimibile» terra dove chiuderò i miei giorni. Proprio ieri, quando l’imbrunire immalinconisce le luci e dilata le ombre, nell’ora in cui il passato cerca di uscire dal vaso dei nostri ricordi, rovinandoci magari il cadere del giorno, proprio ieri – dicevo -, ho risentito quella voce, o meglio la breve risata di quella mia donna conosciuta e persa nella vetrina del libraio. Tutto è nato da un’interferenza telefonica. Avevo alzato la cornetta, dopo uno squillo irregolare, gracchiante e strozzato, un suono anomalo che poteva far pensare ad un errore.«Sono stata in centro ad acquistare una cravatta originalissima per un uomo affascinante, superspeciale in piedi e a letto, conosciuto… [e qui un sacco di cisccisczzzcisc si sostituirono alla voce]. Se la merita proprio, questa seta di Hermès, essendo un maschio di una razza ormai in estinzione».

Era proprio lei? Con chi stava parlando?

Provai un morso di gelosia, inusitato per la mia concezione di vita: ho sempre vissuto per me stesso, volando in cieli liberi, avulso da legami avvinghianti, e non ho mai preteso fedeltà dalla controparte. Che cosa mi stava succedendo? Invecchio, ho pensato. Che sia per questo – mi sono domandato anche -, che non “vedo” più quella voce, ma la sento, o meglio la odo soltanto? Che sia per questo che non proietta più per me lampi luminosi, ora intensi, ora sfocati come bagliori di luna?Dai rumori di fondo riemerse la voce.

«Quando gliela consegnerai?»

«Stanotte. Dopo una cena al…» [ancora rumori, brusio, stridori di fondo]

Sembrava fosse lei, la mia donna di allora, sfumata nel nulla, in conversazione con un’amica. In effetti solo con una sua simile, con una donna, avrebbe potuto magnificare o denigrare il sesso opposto: quelle che stavo rubando erano confidenze del tutto femminili.Ero sempre più curioso, avrei dato un anno di stipendio (facciamo sei mesi, visto che non mi piace sprecare), pur di conoscere l’identità di quell’uomo così speciale che stava oscurando la mia fama.Alzai gli occhi e mi accorsi – vedendola ben inquadrata nello spazio aperto della finestra di fronte -, che a posare il ricevitore, con mossa rapida nella forcella, era una donna, che, pur notandola solo di spalle, aveva qualcosa, anzi molto di familiare. La taglia era simile a quella della donna del passato, scomparsa misteriosamente allora dal mio orizzonte, come fortuitamente sembrava ora essere riapparsa. Decisi di scendere precipitosamente le scale. Uscimmo quasi in contemporanea dai due portoni di fronte. Per mia fortuna caracollava su tacchi alti che le rallentavano il passo, portava in testa un turbantino simile a quello del giorno in cui ci eravamo conosciuti. La falcata era molle, la curva dei fianchi piena, come allora. Il ricordo del suo seno dolce mi procurò un sussulto di turbamento. Rividi la sua piccola stanza al cottage in montagna, mi tornò addosso il profumo della sua pelle d’ambra, il sapore della sua bocca, l’aroma dello champagne bevuto dalla stessa coppa.. Tutto in un lampo il tempo trascorso sgorgava fuori dalla moviola in cui mi illudevo di averlo imprigionato.Salì rapida e leggera sopra un autobus all’angolo, un tacco ribelle le si impigliò nel predellino. Questo piccolo contrattempo mi diede modo di salire a mia volta, senza che lei si voltasse. Presi posto qualche fila più indietro, vicino a una vecchia che portava un micio tigrato dentro una gabbietta: la mia donna e il gatto camminano spesso di pari passo, pensai.Scese dopo tre fermate, la seguii discretamente, tenendo sempre una distanza di sicurezza. Reggeva al braccio una borsetta elegante, affiancata ad un sacchetto colorato con una grande scritta centrale. Sarà la confezione con la famosa cravatta per l’uomo migliore del mondo, pensai indispettito. Entrò in un piccolo ristorante a luci complici, di quelle che attenuano le rughe in volto alle signore e rendono sfumati i numeri del conto salato, agli occhi dei loro accompagnatori. Un cameriere mi fece segno che non c’era posto. Gli allungai un bigliettone, che per magia, fece subito comparire un tavolo libero per me. Mangiai svogliato, tenendo sempre d’occhio la mia “inseguita” e il suo “specialissimo”. Bevevano ridendo, spensierati. Lui le teneva una mano. Quando se la portò alle labbra per baciarla, non ne potei più, fu più forte di me. Mi avvicinai concitato al loro posto e gridai forte il nome della donna che mi aveva sostituito con un uomo che a me parve abbastanza banale. L’uomo si alzò con espressione preoccupata. La donna alzò gli occhi, più chiari di come li ricordavo, ora privi di quella tenue raggiera di rughe che mi intenerivano allora,  e – con voce rattristata -, mi disse: «Sono la sorella. Spesso la gente ci confonde. Sembra che ci somigliamo molto. Lei non c’è più; è morta nel suo cottage di montagna, seduta davanti al caminetto, stava sorseggiando l’ultima coppa di champagne, mentre leggeva Dissolvenza, scritto da un giornalista che le aveva prosciugato il cuore». (Grazia Giordani)

Paura

Chi ha apprezzato Lettera di una sconosciuta o Bruciante segreto di Stefan Zweig (Vienna 1881- Petròpolis Brasile 1942), ritroverà in Paura (pp.113, euro 10, traduzione di Ada Vigliani) la stessa marca semantica di un autore quasi dimenticato a cui Adelphi sta ridando luce con lodevole impegno.Ebreo, austriaco, cosmopolita, Zweig è stato un notevole intellettuale europeo che nel 1942 si suicidò – insieme con la seconda giovane moglie – in  Brasile, dove angosciato dalle persecuzioni razziali, si era rifugiato, nell’illusione di ritrovare  salvezza e soprattutto serenità. Straordinario biografo (la sua autobiografia è un pregevole ritratto d’epoca, pieno di nostalgia per lo splendido autunno dell’era asburgica), come romanziere e narratore, forse indulge, talvolta, in eccessi di enfasi, “iper sentimentali”. Ciò non toglie che i suoi romanzi e i suoi racconti siano acute indagini psicologiche, veri ritratti di angosce, miste ad incubi e a deliri della passione. Maestro della suspense, in Paura, tocca il tema dell’adulterio femminile, inducendoci a ripensare a Madame Bovary, l’adultera per noia e ad Anna Karenina che ha tradito sopraffatta da un fato superiore, cui non ha potuto sfuggire.Irene Wagner, l’eroina di Zweig, è un’affascinante giovane signora dell’alta borghesia, fin de siècle, moglie di un famoso avvocato dai modi convenzionali e severi, vive in una lussuosa casa, con servitù, madre di due figli piccoli, cade, quasi inconsapevolmente, tra le braccia di un amante, accettato più per annoiata vanità che per passione. Vive in maniera inerte nella ‹‹vacua inoperosità della gente inoperosa››. Ma, la sua vita è distrutta, quando, uscendo dalla casa dell’amante, viene sfacciatamente affrontata da una donna che – dando prova di conoscerla bene, nome ed indirizzo compresi – comincia a ricattarla, estorcendole cospicue somme di danaro e persino il prezioso anello di fidanzamento.La paura, come un crescendo sinfonico, viene descritta dall’autore con tale maestria da incollare il lettore alla pagina, tanto da aver incantato registi del passato che ne hanno tratto varie versioni cinematografiche. Nel 1954 persino Roberto Rossellini si occuperà di questo avvincente soggetto, allontanandosi, purtroppo, molto dalla trama di Zweig, dando corpo all’ultimo lavoro nato dal sodalizio artistico e privato tra il regista romano e l’attrice svedese Ingrid Bergman.Tornando alla protagonista del racconto, Irene è sempre più perseguitata dalla ricattatrice e lo sguardo indagatore del marito le crea apprensioni sempre più vertiginose. Infatti, è una vertigine di disperanti angosce dentro cui sempre più si sente sprofondare, come se la sua vita fosse riflessa da specchi deformanti.Che il marito cominci a sospettare? Che cerchi, con il suo atteggiamento, d’invitarla alla confessione? Che sia l’amante, ormai disprezzato e del tutto messo da parte, il mandante della ricattatrice? Insieme ad Irene anche noi sospettiamo ed accavalliamo ipotesi, ricalcando i passi falsi della fedifraga, poco inclini a simpatizzare per lei, suggestionati da come sa porgercela l’autore, quando arriva l’insospettabile coup de théậtre a lasciarci senza fiato, contenti dell’epilogo e scontenti che sia finita la narrazione.

Grazia Giordani


Il vizio della bellezza

Jezabel di Irène Némirovsky, Adelphi

Il vizio della bellezza
Forse commettiamo un po’ tutti l’errore – quando leggiamo un capolavoro – di aspettarci che anche le opere precedenti o seguenti dello stesso autore rivelino il medesimo talento letterario. E così, leggendo Le braci avremmo voluto che tutta la scrittura di Sandor Màrai fosse a quell’altezza e ora, leggendo Jezabel di Irène Némirovsky (pp194, euro 16,50) che Adelphi, in procinto di pubblicare l’opera omnia della sventurata autrice, trucidata ad Auschwitz nel 1942, ci propone nella bella traduzione di Laura Frausin Guarino, avremmo sperato di ritrovare in queste pagine la rara grazia di Suite francese.
Sembra proprio che certi miracoli si verifichino con parsimonia e ogni romanzo dovrebbe essere letto per sé stesso, ma è umano ed inevitabile fare raffronti. Uscito per la prima volta nel 1936, di Jezabel si erano perse le tracce. Pare che Fanny, la madre – morta più che centenaria nel 1989, con cui l’autrice ebbe un burrascoso rapporto -, custodisse il manoscritto originale dentro una cassaforte. E forse proprio il paradigma materno è stato fonte di ispirazione per figure femminili non proprio esemplari, come già a suo tempo si è detto, recensendo anche David Golder.
Se in Suite francese, scritto quasi in presa diretta, abbiamo ammirato la “comédie humaine” di struggente valenza vissuta dagli abitanti di una Parigi occupata dai nazisti, in Jezabel più che un affresco a vasto raggio, incontriamo il ritratto femminile di una “femme fatale”, una donna che fin dagli anni della sua prima giovinezza ha posto l’accento sul potere della bellezza estetica e sulla voluttà che ne deriva. La bellezza raggiunge il parossismo di un irrinunciabile vizio, quasi una fatale condanna.
Gladys Eysenach non ha occhi che per se stessa e si cura soprattutto con belletti, massaggi e artifici, per la conservazione di un aspetto esteriore che non denunci la sua reale età anagrafica. Gli uomini saranno dunque intercambiabili pedine nelle sue mani, anche quelli che parrebbero aver avuto più consistente peso nella sua volubile esistenza – vedasi Dick, il secondo marito – che afferma sopra tutti di rimpiangere.
Accusata di aver ucciso il suo giovane amante nella spensierata Parigi anteguerra dove i ricchi sembrano vivere in un mondo dorato sopra le righe (lo stesso mondo della Némirovsky, prima della sua terribile fine), dove tutto sembra scintillare di luci troppo forti e dove le coscienze appaiono essere fatue e prive di sostanziose consapevolezze (quasi si vivesse dentro un dipinto di Mario Cavaglieri!), Gladys – in pieno contrasto con le aspettative degli astanti, non chiederà di essere assolta.
Ancora molto bella, tanto che sembra il tempo l’abbia sfiorata appena, mentre il clima d’attesa nell’aula di tribunale si fa sempre più gonfio di gossip – prestando l’estro alle invidiose presenti di fare un ripasso del folto carnet dei suoi numerosissimi amanti – sembra nascondere una verità che sfugge al pubblico goloso di scandali, sovraeccitato e impaziente di impadronirsi dei suoi pruriginosi segreti.
Misteri che verranno svelati solo al lettore attento che sa leggere fino in fondo il peccaminoso dramma di una donna vissuta nella costante menzogna al fine di nascondere la sua reale età anagrafica. Menzogna che la spingerà a falsificare documenti, ringiovanire la figlia al fine di ringiovanire se stessa e soprattutto negare la possibilità alla figlia di amare liberamente e di essere madre in maniera normale, senza sotterfugi.
Gladys, disperatamente ostinata nel suo artificioso giovanilismo, non potrebbe mai accettare di essere nonna. Questo è il suo maniacale dramma. Questa è la sua fissazione che la spingerà a sacrificare la figlia, che la indurrà a calpestare quanti la attorniano, determinata – sessantenne – a mantenere il rapporto con un uomo che per età potrebbe esserle figlio e spingendola poi all’omicidio di quello che parrebbe essere un suo giovanissimo nuovo amante.
Sottolineiamo parrebbe perché un po’ di sorpresa bisogna pur lasciarla al lettore inorridito dall’umana tortuosità di una donna che non vorremmo avere per madre e tanto meno per nonna (soprattutto visto l’epilogo).
Grazia Giordani

Grazia Giordani

Pubblicato in Arena, Giornale di Vicenza e Bresciaoggi nel maggio del 2006

Data pubblicazione su Web: 06 Maggio 2007

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