Archive for febbraio 2011

La fuga del signor Monde

 Appartiene certamente al ciclo dei romanzi di crisi – come li ha definiti lo stesso autore –La fuga del signor Monde (pp.154, euro 17) che Adelphi, intento a curare l’opera omnia di Georges Simenon, ci propone nell’accurata traduzione di Federico di Lella e Maria Laura Vanorio.Le caratteristiche generali di questo tipo di narrazione: brevità e densità contenuta in non più di dieci capitoli, abbastanza simmetrici, quasi tutti della stessa lunghezza, la ritroviamo in toto in questo romanzo, scritto nell’aprile del 1944 e apparso a stampa esattamente un anno dopo. Jean Renoir avrebbe voluto trarne un film, affascinato dalla sua singolarità, ma non ci è dato sapere il motivo per cui il progetto non è andato in porto.
Articolato attorno  ad un personaggio centrale – il signor Monde, appunto – siamo indotti a seguirne l’azione senza sosta, chiedendoci perché – per quali contorsioni psicologiche, un uomo ricco, proprietario di una ditta parigina di import-export, in una fredda mattinata d’inverno, proprio mentre il suo autista lo portava come sempre al lavoro, abbia deciso di scomparire.

«Probabilmente lo aveva sognato spesso, o ci aveva pensato così tanto che adesso aveva l’impressione di compiere gesti già compiuti». Evidentemente, lo scontento della vita di routine, senza particolari gioie, abitata da due matrimoni – scioltosi per abbandono da parte di una Thérèse viziosa, a dir poco, il primo – e vissuto nella noia della consuetudine, il secondo, a fianco di una moglie algida che si decide a denunciarne la scomparsa, solo per motivi d’interesse.
Anche Simenon sembra chiedersi, insieme al lettore, perché Norbert Monde abbia deciso la fuga perché è il giorno del suo compleanno, o magari per un motivo impercettibile, come quello di aver visto all’improvviso, davanti ai suoi occhi «i comignoli rosa che si stagliavano sullo sfondo di un cielo azzurro pallido su cui fluttuava una minuscola nuvola bianca». Che sia per questo o per un condensato di molteplici motivi (figli di primo e secondo letto poco gratificanti;  addirittura un figlio maschio con tendenze gay) a far nascere in lui la voglia di lasciarsi la vita consueta alle spalle, correndo verso la bellezza purificatrice del mare?
Presto fatto: si fa radere i baffi, scambia il completo dal taglio elegante con un abito di seconda mano, corre alla Gare de Lyon, chiedendo un biglietto per Marsiglia.
Quando il mare gli appare davanti, carico dei suoi ricordi d’infanzia, il signor Monde, scioglie in lacrime il suo nodo vitale di scontento. Ed è proprio quel pianto che sembra lavare «tutta la stanchezza accumulata in quarantotto anni», lacrime dolci «perché ora la battaglia era finita» e a lui era dato vivere un’esistenza nuova, novello Mattia Pascal di pirandelliana memoria, in un mondo lontanissimo dal suo.
Un bel giorno però, gli apparirà davanti agli occhi la sua prima sciagurata moglie eroinomane e il protagonista del romanzo sarà indotto a riprendere la sua vita di un tempo.
Naturalmente, lasciamo al lettore i passaggi intermedi, non privi di sorprese, per non far torto al grande belga, nostro autore di culto, diciamo solo che Monde, in buona sostanza dotato di un animo generoso, pur rientrando nel tran-tran della sua passata esistenza, non sarà più la stessa persona, potendo permettersi il lusso di  indossare un animo nuovo, guardando finalmente avanti a sé con una conquistata «fredda serenità».
Grazia Giordani
 

 

                    
 

I racconti di Grazia



(immagine dal web)

Miss gambe

Questo è l’ultimo episodio che mi ha narrato l’’avvocatone” di cui ormai sapete molte cose, quello deluso da Patrizia e che a sua volta aveva deluso Rita (il mondo è una vera girandola di delusioni a catena!), quello che mi raccontava spicchi della sua vita erotica obtorto collo, non del tutto persuaso che ne avrei tratto qualcosa di buono.
«So bene – mi diceva – che lei continua ad essere scettica riguardo alla verità di quanto le vado raccontando, ma le giuro che questa è solo una parte della mia vita professionale ed amorosa, spesso mescolate insieme.
Intorno agli anni Sessanta, per conto della SIAE, ero in giuria del premio Miss gambe. Non c’è niente da ridere! Se fa così, non continuo il racconto. Bene. Eravamo nel pieno dell’estate. La manifestazione era tenuta all’aperto. Nell’aria navigavano profumi di fiori, disposti per abbellire i tavoli collocati nel parco, misti agli aromi forti di drink speziati, ma era soprattutto l’odore di donna che spiccava fra tutti, uno strano cocktail di sesso e miele – e non faccia quella faccia, suvvia, sembra un’educanda! – che solo voi sapete emanare. (Comunque penso che questa non sappia di nulla, è arcigna e provinciale, non so nemmeno perché io le stia regalo queste chicche…).
Presi posto fra i giurati. L’occhio di bue illuminò una ad una le candidate al premio che avevano il volto coperto da un drappo nero, quasi fossero condannate al patibolo. Indossavano vesti succinte, le gambe esposte in netta evidenza».
«Perché il volto nascosto?»
« (questa l’ ho detto io che capisce poco…) È chiaro – Signora – per non influenzare la giuria, sedotta da un bel visino, a discapito delle gambe!»
«Un rullo di tamburi elettrizzò l’aria già calda di desideri. Iniziai ad esaminate gli steli di quei bellissimi fiori-donna con la massima attenzione. Cosce lunghe sovrastavano ginocchia ben modellate, posizionate sopra polpacci alti in maniera sufficiente da permettere alla caviglia di mostrare tutta la sua snellezza. Non vi erano calze, né artifizi adatti a mascherare difetti. Eppure, io cercavo gambe che fossero anche “espressive”, non solo perfette. Adesso lei mi obietterà che solo i volti possono avere espressione, ma non è vero. Ci sono mani che parlano, che esprimono sentimenti non solo nel gestire, ma anche nella forma piatta o bombata delle unghie, nell’attaccatura al polso, nel modi di piegare le falangi; ci sono glutei che mi fanno impazzire per certa loro rotondità sinuosa, sensualissima. Ma ritorniamo alle gambe…
«Torniamo alle gambe – dicevo. Cercavo gambe che mi parlassero, che “chiamassero” che mi… E poi con lei non si può parlar chiaro come facevo con Bevilacqua – altro “degustatore”! – o con la Maraini che non è certo bigotta. Lei sta lì, appollaiata sul sedile, Signora-guardatemi-ma-non-toccatemi, e col suo fare asessuato – mi perdoni – mi toglie tutta l’ispirazione…»
«Siora – si intromette la voce dell’autista del pullman, in sordina – non la staga mia darghe retta, ‘sto qua el xe n’avocato che no me farìa defendare gnanca sa avesse robà solo do gaine…»
«E, finalmente le vidi: appartenevano alla penultima concorrente in fondo alla fila».
«Manco mae, chissà che ‘l la pianta de rompare, ciò!»
«Le assaporai piano, godendomi la rotonda perfezione dei talloni che posavano su tacchi a spillo color oro brunito di deliziosi sandaletti, percorrendo quindi tutto il dorso nervoso di quel piedini perfetti, snelli senza essere scarniti, arcuati in maniera deliziosa, e giunsi alla grazia curvilinea del polpaccio morbido e compatto; ebbi un sussulto arrivando al ginocchio, e tenni per ultima la coscia fasciata dalla seta naturale di quella candida, trasparentissima pelle, perdendomi poi nella chiusa magia di quell’inguine… E mi incaponii perché il premio fosse dato a lei. Quando le tolsero il drappo dal viso, mi persuasi che le gambe continuavano ad essere la parte migliore di quella Edelweiss (che strano nome!), una ballerinetta da quattro soldi, molto ben fatta, ma con lineamenti troppo risentiti. Qualcuno le disse che il mio voto era stato decisivo. Mi ringraziò con un sorriso esagerato, un po’ troppo servile, chiedendomi poi il mio indirizzo».
La narrazione dell’avvocato si faceva sempre più lenta, perso nei suoi nostalgici ricordi, quell’anziano signore sembrava parlare soprattutto per se stesso. Si stava raccontando una piccante vicenda con dovizia di particolari.
«L’indomani comparve allo studio, abbigliata con abiti troppo stretti, tacchi troppo alti e troppo profumo dozzinale indosso. Tutto troppo, solo le gambe erano poche, perché di gambe così vorremmo vederne in numero infinito».
«Ciò, el voea un millepiedi ‘sto vecio qua!».
«Accettò subito un invito a cena, ben consapevole e speranzosa del dopocena. Ma non volevo portarla a casa mia. Sullo stesso pianerottolo abitava ancora mia madre. Non volevo “sporcare “ lo studio, ancora pieno delle ore trascorse con Patrizia. Mi venne in mente che un mio amico scapolo e gaudente pari mio, mi aveva proposto l’uso della sua garçonnière, raccomandandosi di mettere un apposito segnale sulla porta d’ingresso, per far vedere che il locale era occupato».
«Come La Dame aux camélias quando metteva nel risvolto del colletto una camelia rossa per indicare che era giunta in “certi giorni” del mese?»
« (Allora non è sprovveduta come sembra – questa – non legge solo “Famiglia cristiana”, sembra conoscere anche Dumas). Sì, proprio così, Signora, un segnale convenuto, onde non creare incontri sgraditi ed imbarazzanti»
«E allora?»
«Approfitto del momento di sosta per scendere a fumare una sigaretta».
«Ma davero la scriverà de ‘sta storia? La pare tuta inventà…»
Le ombre della sera stavano velando il paesaggio che aveva ripreso a saettare, visto attraverso i vetri in corsa. Scampoli di giardini precedevano o seguivano case piatte, impersonali e i viaggiatori del pullman, seduti attorno a noi, attendeva il resto del racconto.
«Cenammo in fretta. Per farle colpo la portai in un locale lussuoso, pentendomi subito della scelta: teneva male le posate in mano e masticava a bocca aperta, sbrodolandosi il mento. Andammo diretti nell’appartamentino compiacente dell’amico. Misi alla porta il segnale convenuto, senza curarmi, per la fretta, se fosse stato fissato con la dovuta cura. E…»
«… ed entrarono all’improvviso – cogliendoci già mezzo spogliati – l’amico in compagnia di una ragazza minuta, di aspetto molto delicato, in netto contrasto con la mia Miss, quella Edelweiss felicemente “gambuta” di cui già molto conoscete.
Non sapevo se ridere o piangere. Franco, l’amico, invece di scusarsi, o andarsene alla chetichella, come avrei fatto io al posto suo, si sedette disinvoltamente sul letto, aumentando il mio imbarazzo. La mia compagna si sedette a sua volta, solo la piccola restò in piedi, accostata al muro, silenziosa e immobile, come se fosse in uno stato di attesa. E così, non ostante la situazione, a dir poco grottesca, ebbi modo di osservarla. Già sapete quanto io sia «curioso delle donne». Efebica, la sua figuretta sottile, sembrava nuotare dentro delle salopette di un color liquirizia, in strano accordo cromatico col suo sguardo, reso obliquo dal taglio orientale degli occhi. Nasino minimo, bocca gentile, pelle chiarissima. Nulla di procace, eppure dotata del fascino acerbo che hanno le rose di macchia ancora in boccio, quelle che vorremmo non sfiorissero mai».
«Te po’ figurarte se intanto che i jera in mutande pronti a…quelo el se mete a osservare la magreta e i so oci e la so pele e le rose sbocià e da sbociare…»
«E così le è sfumata l’occasione di “giocare” con Miss gambe?»
«Se fosse andata solo così, sarebbe niente. Ma, al solito mi interrompe, non ha pazienza, vuol correre alle conclusioni. Mira ai fatti, non è attenta alle sfumature, ai passaggi psicologici sottili, ai miei stati d’animo. Non è attenta alle descrizioni dell’ambiente. Mi ha chiesto com’era la stanza? Com’eravamo vestiti? Mi rivolge domande insignificanti…Ma riprendiamo il filo da lei inutilmente interrotto. La piccola – che si chiamava Silvia – un nome adatto a lei, odoroso di bosco intatto, di erbe selvatiche, di viole nascoste, continuava a guardare la scena, ora sorridendo piano, in maniera “leonardesca”, impercettibile. Sollecitata da Edelweiss, si avvicinò timidamente. Franco aprì un mobiletto, estrasse bicchieri e bottiglia e gridò. “Brindiamo, brindiamo all’amore, all’amicizia, alla gioia dello stare insieme!”».
«El gavèa un bel corajo par altro, dopo che ‘l jera vegnù a romparghe…»
«Bevemmo, parlammo. L’amico accese lo stereo. Edelweiss si mise a ballare in maniera sempre più sfrenata, dimenandosi come un’ossessa, denudandosi senza pudore. Sembrava una baccante. Silvia la guardava incantata, attratta da quella femminilità aggressiva, irruenta, scalmanata, trasudante eros e afrore di carne surriscaldata. La guardava come se fosse a teatro e stesse assistendo ad uno spettacolo che l’andava infiammando. Dove l’aveva pescata Franco? Seppi poi che era figlia di vicini di casa. Che strano vicinato!
«Inaspettatamente, finito quell’improvviso baccanale, le due ragazze uscirono dalla stanza, come se un cenno a noi sfuggito, le avesse legate, fatalmente, all’improvviso».
«E così lei è andato in bianco?»
«Non sia inesorabile, Signora!»

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

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I racconti di Grazia


Una bizzarra posta di gioco

Quell’avvocato di cui già sapete è stato una vera miniera di ispirazioni.
«Dai mie ricordi hanno tratto a piene mai Bevilacqua e la Maraini, oltre a tanti altri, quindi se scriverà qualcosa anche lei, poco male (sempre che questa sia in grado di farlo, mah ho i miei dubbi); vista la considerazione in cui la tengono gli amici, penso che lei sia una, una…»
«… una cornacchia?»
« Signora, cosa dice, non mi permetterei mai (che mi legga nel pensiero, questa?)»
«Lo so che quanto le racconto le sembra frutto di fantasia, ma le giuro che è tutto vero. Lei vive in provincia (chissà che posto sarà mai quel Polesine) e quindi, trascorrendo i suoi giorni in un luogo tanto sereno e tranquillo, fatica ad immaginare le storture e le aberrazioni di certa gente di città.
«Dunque, una bella mattina (a quell’epoca la Patrizia lavorava con me e la Rita non aveva ancora scoperto nulla) mi capita in studio una signora sulla quarantina. Un tipo elegante, sofisticata, vestita con classe, profumo giusto, accessori intonati. Sono un uomo che guarda a tutto; le donne le annuso quasi, le sento a naso, insomma».
«Come fossero tartufi?»
«Se mi interrompe sempre, perdo il filo e non riesco più a raccontarle. Dove eravamo rimasti?»
«Alla signora “annusata”».
Rassegnato alle mie interruzioni, l’avvocato, guardando fuori dal finestrino con occhio opacizzato dalle visioni di vita lontana, prosegue a raccontare la bizzarra vicenda di questa cliente, sposata a un professionista, malato terminale di un’orribile malattia. La moglie vorrebbe liberarsene, in quanto innamorata cotta di un giovane «squattrinato, ma tanto sensuale ed affettuoso», con cui spererebbe di rifarsi una vita e soprattutto vendicarsi del fatto che – quando il marito era nel pieno delle forze e della salute -, accanito giocatore di poker, la usava come posta di gioco. Se perdeva la partita, la costringeva ad amplessi forzati con il vincitore che acconsentiva a questo perverso accordo.
«Pochi giorni dopo, mi capita nello studio un uomo emaciato, col respiro corto. Lo faccio sedere, premurosamente, e – prima ancora che mi esponga il caso -, capisco subito che è il pokerista dalle strampalate abitudini».
«Sono disposto a qualsiasi compromesso – mi sussurra -, ma non voglio morire “separato”. Mi aiuti a convincere mia moglie a un ultimo poker, prima della mia fine».
«A quelle parole, mi sembrava di vivere dentro un romanzo scritto da una penna alienata. Avevo proprio la faccia che fa lei, Signora, la sua stessa espressione divisa tra meraviglia e disgusto -, e sì che ne ho viste di stramberie ed aberrazioni nella mia vita…»
Un camion che ci superava in corsa mi fece perdere le ultime parole del narratore.
«Come?»
«Dicevo che – impietosito – mi rivolsi alla moglie che, freddamente e contro ogni mia aspettativa, acconsentì sotto condizione che assistessi anch’io alla partita. «Veramente avrei preferito presenziare al “dopo partita”, perché non amo il gioco. Ma non seppi sottrarmi.
«La sera seguente, fui accolto in una lussuosa mansarda in una centralissima via della mia città. Un ascensore silenzioso, che sembrava volare sulla seta, mi condusse direttamente in casa da questa strana gente e quindi in un boudoir pieno di cineserie e abatjour ornate da frange che proiettavano irreali cerchi di luce sul tavolo verde.
La partita fu brevissima.
Sembrava che il marito volutamente desiderasse di perdere.
La moglie si allontanò col vincitore sottobraccio.
Con l’animo di chi ha vissuto un incubo, mi diressi all’ascensore.
Nel chiudere la porta, udii il fragore di uno sparo.

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

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I racconti di Grazia



(immagine dal web)
L'avvocato a luci rosse

In occasione di un mio breve viaggio, ho conosciuto un avvocato “a luci rosse”, un anziano uomo di legge, amico di politici che contano, di nobili romani dal blasone altisonante, di scrittori alla moda, frequentatore dei salotti più ambiti, assertore di aver ispirato scrittori nazionali con i suoi pruriginosi racconti.
«Per lei ho qualcosa di inedito – mi ha assicurato – qualcosa di molto pepato. Prenda nota».
Incurante della stretta verità o delle visionarie “aggiunte” in quanto mi narrava, ho scritto di conseguenza, sull’onda dei ricordi di un personaggio che pare uscito dalle pagine di un romanzo di Moravia.

Senza saliva

Era uno di quei giorni scivolosi, in cui l’aria è così imbevuta di umidità, da rendere viscidi i tuoi passi, i vestiti, e – persino – i tuoi pensieri più nascosti. L’autunno stava dimenticandosi dell’estate, già dall’inizio, smemorato in maniera fastidiosa. La scala del tribunale mi apparve insidiosa più che mai, tanto da salirla cautamente, ben aggrappato alla ringhiera.
La porta della segreteria si aprì, quasi per incanto, mossa da una forza intima, come se la mano dell’uomo non vi prendesse parte alcuna. Solite scartoffie sul bancone e nelle scansie, aria ferma, acre di troppi respiri, computer accesi, tastiere percosse da dita rassegnate di segretarie già stanche.
Dal tavolo in fondo, quello meno in vista, scostando la seggiola senza rumore, si materializzò una visione divina. Alta quasi quanto me – che sono già un uomo di imponente statura – bionda e burrosa come la Marini, mi venne incontro un’irresistibile ragazza. Adoro le donne con gli occhi chiari, la pelle di miele e le curve posizionate giuste.
Dopo avermi consegnato gli incartamenti richiesti, accettò – con estrema naturalezza – il mio invito a bere un aperitivo.
Le scale non mi apparvero più così insidiose, scendendole al suo fianco, fiero di farmi vedere in compagnia di un così procace esemplare femminile.

Accettai subito l’invito all’aperitivo offertomi da quell’avvocato imponente, grave nei gesti lenti ed antichi, perché mi sentivo sola, perché mi appariva un uomo importante, perché speravo in un po’ di protezione…
Sì, mi parve un tipo protettivo. Di lui sapevo già molto: professionista stimato; studio legale in una centralissima via della città gaudente per definizione, in cui si alternavano impiegate e colleghe sempre molto piacenti, bionde e prosperose; nessuna attitudine al matrimonio; generosità “controllata”, ovvero dare in proporzione di quanto si poteva ottenere, mai una lira di più; modi distinti da vecchio gentleman, pur essendo appena di poco oltre la cinquantina; abbigliamento curato fino nei minimi dettagli; fama di viveur incallito; frequentatore dei salotti più in vista.

La guardai comodamente seduta, all’interno di un caffè centrale della mia vivace città. La volli dirimpetto, per ammirarla bene. Nella penombra autunnale, il candore del suo volto sembrava brillare, tagliato dal carminio di una bocca perfetta, rossa come il frutto del peccato e già offerta. Tutto in lei era offerto sin dal principio. Le sue gambe tropo accavallate che lasciavano già vedere più che intuire l’avorio chiaro della sua corsetteria; la scollatura senza segreti da cui debordava un’abbondanza succosa che già mi rendeva affannoso il respiro.
Tutto questo cerco ora di narrarlo – vent’anni dopo l’accaduto – a una scrittrice ingorda delle mie confidenze, ingolosita dal fatto che Bevilacqua, ispirandosi alla mia vita galante (veramente da lui definita da erotomane) ha intitolato un suo romanzo "Il curioso delle donne" e dall’aver letto un episodio piccante in un altro celebre romanzo della Maraini che riprende un mio amore “alla finestra”, insomma un’esibizione a distanza, con una mia permissiva dirimpettaia.
Rita, la bionda così si chiamava e si chiama, ha accettato subito l’invito a salire nello studio, poco distante dal tribunale. Era un gusto osservarla: la coscia sembrava voler uscire dal tessuto della gonna che già faticava a contenere quei glutei perfetti, e il seno sussultava, partecipe ad ogni scalino.

Sono arrivata su, in cima alla scala (l’ascensore era in manutenzione) un po’ sconvolta da tutto quel forzato ancheggiare e da quel dimenarmi per attrarre l’attenzione di un uomo famoso per i suoi gusti in fatto di donne compiacenti. I guadagni modesti e il desiderio di piantarla con la mia vita da pendolare, mi spingevano a forzargli la mano, per ottenere subito il massimo da lui. Averlo per protettore era una fortuna grande per me, in quel momento.
Lo studio mi apparve molto lussuoso e nel contempo cupo.
«Sarò il tuo mentore» – mi disse con voce arrochita – ponendomi subito le mani addosso. E, del resto, ero lì per quello e, al di là dell’interesse venale, quell’uomo mi attraeva, c’era qualcosa di “incestuoso”, nella nostra situazione, che accendeva la mia fantasia già naturalmente propensa al sesso, conosciuto in età tenerissima. Mai mi sono sottratta agli uomini che mi hanno toccata, un po’ per reale desiderio e un po’ – lo credereste? – per pena nei loro confronti. Tutto quell’ansimare me li ha fatti apparire fragili, ansiosi di arrivare in fondo, impauriti dal non riuscirci nel migliore dei modi.

La faccia della scrittrice, mentre le narro le mie storie di sesso, non mi piace per nulla. La sento commentare in sordina col marito, schifato dalle mie avventure. «Ma veramente vorrai scriverne? Non è il tuo genere…»
Il divano ci accolse, materno, in quegli anni in cui ero così vivo naturalmente. Tutto si svolse in maniera troppo facile e troppo rapida. Non trovai in Rita nessun pudore, nessuna resistenza, solo gemiti ed eccessiva collaborazione.
Non mi era mai capitata una donna così consenziente. Era chiaro che voleva sistemarsi e nel contempo che il sesso le piaceva e che io le piacevo.
«Dove abiti?»
«Vengo ogni mattina in treno e riparto nel pomeriggio»
Le offersi un alloggio e, dopo un mese, le comperai un’utilitaria, non bisogna mai dare troppo.
Una mano perentoria bussò alla porta del mio studio.
«Avanti!» – dissi con voce seccata. Detesto gli arroganti, perché io sono un mite.
Entrò una ragazza sotto la trentina, alta, snella, addirittura filiforme, insomma l’esatto contrario del mio ideale femminile, per di più con i capelli cortissimi, mentre io adoro le chiome lunghe e bionde, ma questo lo sapete già e lo vado ora ripetendo alla scrittrice che sta prendendo appunti e che non mi è affatto simpatica, con quella sua aria sussiegosa e con quel ridacchiare col marito.
Provinciali, che non credono alle telefonate del principe Colonna che mi sta chiamando sul cellulare per un defilè in casa sua e sono dubbiosi sul fatto che io abbia ispirato Bevilacqua e la Maraini.
Gli occhi – solo quelli – mi colpirono della ragazza efebica e sorridente sulla soglia del mio studio. Quello sguardo caffè forte mi procurò un turbamento nuovo.
«Avvocato, ho appena ottenuto il titolo, non ho danaro né amicizie per aprirmi uno studio. Mi aiuta?»
«Posso darti due milioni al mese e aiutarti a trovare un alloggio».
Offrivo basso, perché, strette dalla necessità, so bene che le donne diventano più – ehm, ehm – più donative.
Provai a metterle la mano su una spalla, ma lei si scostò con uno scatto poco lusinghiero.
Arrivò Rita, ancheggiando al suo solito modo, anzi più che mai. Accostate, le due ragazze, creavano uno stuzzicante contrasto.
Col passare dei giorni, Patrizia cominciò lievemente ad ammorbidirsi.
Però, sentite in che modo.
«Ho visto un tailleur delizioso, ieri in galleria. Ma non potrò mai permettermelo».
«Andiamo a vederlo insieme».
Addosso alla sua figurina era uno spettacolo. Stavo cambiando gusti e la sua magrezza stava diventando più eccitante delle grazie sinuose della bionda maggiorata.
«E le ha “frequentate” tutte e due in contemporanea?» – la scrittrice provincialotta che non sa capire le gioie di un viveur.
Altroché se le ho frequentate, godendo appieno le gioie complete e un po’ appiccicose di Rita e spasimando per Patrizia che mi si dava col contagocce.
Non voleva che io salissi nell’alloggio che le stavo pagando in un centralissimo appartamento; non voleva salire a casa mia (perché lì ricevi già Rita e sentirei la sua presenza). Quel poco che mi dava avveniva solo nello studio. Dopo una mia “dazione” (cappottini, tailleurini, tette ingrandite dal chirurgo, abbonamenti a teatro, per cui tenevo minuziosamente segnate le spese, sono un uomo estremamente ordinato nei conti), quando chiudeva le finestre e abbassava le tende, lasciandomi intendere che qualcosa sarebbe avvenuto, il mio cuore batteva all’impazzata e l’eccitazione era così forte…
«No, non tema signora!» – lo dico alla giornalista che paventa particolari troppo piccanti.
E qualcosa avveniva, ma sempre parziale, con un progredire al passo di tartaruga.
Non voleva essere baciata in bocca. Temeva la mia lingua più di un orrido serpente. Se tentavo di umettare le parti più intime del suo corpo, urlava, indignata.: «Mi raccomando, senza saliva!»
«Ma lei, non arguiva da questo l’assenza non dico d’amore, ma almeno di interesse, di affetto, non sentiva il ribrezzo di Patrizia?»
«Signora è mai stata innamorata? Ha mai perso la testa, lei?»

Che strazio dover dare sempre di più al “vecchio” che non è un cattivo diavolaccio, ma che mi attrae come un calcio negli stinchi.
Adesso vuole regalarmi l’appartamento, e capisco che lo fa per avere “tutto” da me.
Non si contenta più delle “coccole”, così ha il coraggio di chiamare quei suoi leccamenti bavosi. Parla persino di co-intestarmi nel suo conto corrente, «comprese le azioni di borsa», aggiunge quasi lacrimando. Ogni volta che mi fa un regalo, annota scrupolosamente l’importo in un suo libricino nero e a fianco mette una sigla, corrispettiva ai progressi ottenuti da me. E’ un maniaco. Perché non si contenta della Rita che gli muore dietro, sculettando come una trottola e che gliela darebbe anche gratis? Però, se così fosse, non avrei le belle cosine e ormai cosone che mi regala a piene mani. A volte si eccita talmente, che ho quasi paura che mi resti lì, un cadavere eccellente da non poter più spennare.

Ieri l’ho portata con me in banca a firmare. Ora può disporre degli assegni a suo piacimento. Quello che è mio è suo. Spero accetti di sposarmi. Senza di lei la mia vita è inutile. Anche Rita, scoperta la mia eccessiva generosità («e pensare che io non ti ho mai chiesto nulla e ho accettato solo l’utilitaria su tua insistenza e stavo con te perché mi piacevi e ti amavo e quell’avida sarà la tua rovina e bla bla bla), trovato il famoso libretto nero fra le mie carte, ora mi ha lasciato.

Sposarlo? Oddio, piuttosto rinuncio a tutto. Tanto, ormai, più di quello che mi ha dato, cosa potrebbe ancora offrirmi? Di suo gli resta solo lo studio, quella maledetta garçonnière, dove mi obbliga a subirlo.

Invece di essere più affettuosa e carina, dopo che le avevo elargito ogni mio avere – su mia insistenza devo ammettere – la vedevo raffreddata, elusiva, distante, meno propensa a tirare le tende dello studio, antipasto delle “coccole”. Smanettava nervosamente col telefonino, si agitava per nulla, non si faceva trovare.
Decisi di piazzarmi sotto casa sua, stando in vedetta.
Uno sportivo, un calciatore importante che anni prima io stesso le avevo presentato, in quanto mio cliente, scese dalla scala di casa sua, un po’ spettinato, a dire il vero.
«Avvocato – interloquì il barman che mi conosceva da sempre – da tempo avrei voluto dirglielo, ma la Patrizia vede quel signore del pallone ormai da tre anni».
Mi si annebbiò la vista.
Non ricordo nemmeno come feci a salire quella rampa di scale fino al suo appartamento. L’aggredii con un’ira omicida.
In un ultimo gesto di schifo l’«efebica» mi rese tutti gli incartamenti, i contratti, gli accordi venali. Non le importava più di nulla. Mi lanciò dietro i sui tailleurini, cappotti, profumi, bracialettini e ninnoli vari. Certo le tette e i denti rifatti non poteva restituirmeli, quelli no! Urlava come un’ossessa, gli occhi fuori dalle orbite, le vene del collo grosse come serpenti.
E in un ultimo rantolo pieno d’odio, farfugliava: «senza saliva – dovevi farlo – senza saliva, maledetto!»
E ora sono solo. Rita mi ha lasciato. Patrizia ha cambiato casa e vive col calciatore in un’altra città.
«Come fa a continuare a rimpiangerla? Non riesce a fare appello alla sua dignità?»
«Signora, ma lei si è mai innamorata?»

E nel dire questo, scese dal pullman, strascicando i passi e tirandosi appresso la sua valigetta, piena soltanto di ricordi, di tanta solitudine e di umiliato dolore, non prima però di avere estratto un ampio fazzoletto per asciugare agli angoli del labbro un lucido flusso di saliva.

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

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A Grazia Giordani

(Mi ha fatto  grande impressione questo comunicato spampa ricevuto or ora, ma che il Polesine stia diventando di moda???

 

 


Comunicato Stampa

Il Polesine protagonista su Donna Moderna

Il Polesine è su Donna Moderna. Il popolare settimanale femminile della casa editrice Mondadori pubblica, nel numero sino ad oggi in edicola, una bellissima doppia pagina intitolata "Primavera sul Po" invitando le lettrici a godere la nuova stagione là dove i "Paesaggi cambiano a ogni soffio di vento, là in quella striscia di Veneto dove il fiume incontra il mare. E che, quando la natura si risveglia, regalano un arcobaleno di colori incredibili. Perché per emozionarsi non c'è bisogno di arrivare in capo, al mondo, basta saper guardare i tesori di casa nostra".
Il servizio, firmato da Isabella Colombo, è segnalato anche sulla copertina del settimanale. Il testo della Colombo è accompagnato da tre splendide immagini dell'Isola di Scano Boa, degli "orti d'acqua" di Scardovari e da una immagine primaverile di Adria, definita "la piccola Venezia". Altre immagini sono disponibili con il sistema Qr code, fotografando il quadrato pubblicato sulla rivista con il proprio cellulare.
"Il servizio su Donna Moderna è solo il più recente dei molti che in questi mesi sono stati pubblicati o messi in onda sul nostro Delta, commenta il Presidente dell'Ente Parco Geremia Gennari.
Tutti nati dall'educational per la stampa italiana organizzato dal Parco e dalla Regione del Veneto in concomitanza con il Premio Parchi del Veneto conferito lo scorso ottobre.
Del nostro Delta si sono occupati con ampi servizi o segnalazioni di livello, uscite tutte dal tono decisamente positivo, altri media di larga diffusione, da Famiglia Cristiana al Corriere della Sera, al mensile Case & Country, Turismo all'aria aperta, al Venerdì di Repubblica. Il Delta e il Polesine sono stati oggetto anche di importanti servizi televisivi nazionali andati in onda, con ampi servizi, su tutte e tre le reti nazionali della Rai, su TV2000 e altre emittenti specializzate.
Sono segnalati come di imminente uscita servizi e proposte per viaggi e week-end su Qui Touring, Corriere Style, Intimità. Le meraviglie del Delta saranno anche illustrate su Marie Claire Maison.
Credo che per il Delta e il Polesine si sia trattato di un buon lavoro di immagine, oltre tutto senza costi se non l'ospitalità di 2 giorni a una decina di giornalisti. Spero che a questo nostro contributo facciano presto seguito le azione di promozione dell'intero Polesine. I giudizi entusiasti che sul nostro territorio hanno espresso i giornalisti invitati a conoscerlo, confermano che abbiamo in mano le carte giuste, spetta a noi crederci e spenderle al meglio".
 

Flavio & Giuditta

(fine)

 

  
Il sorriso compiacente del portiere le creò un lieve imbarazzo.
«Quanti anni erano che non arrossivo?» – chiese a se stessa, rassegnata all’andamento altalenante che andava prendendo la vicenda.
«Potrei sottotitolare questa mia storia: Adultera a metà, un po’ come un tempo c’erano le demi-vierges. Mi sto effettivamente comportando nell’identico modo dell’eroina nel Don Giovanni di Mozart, quella che canta “vorrei e non vorrei”…Sì, sarei tentata di vivere fino in fondo il recupero di un amore ripescato, ma non so ancora se ne valga veramente la pena. Se leggessi di una donna siffatta in un romanzo, penserei ad un personaggio artificioso, costruito a tavolino dalla mente contorta di uno scrittore, e invece io sono proprio così, amletica, labirintica. Oddio, come mi sono antipatica! Certamente dimostra maggior coerenza Flavio. A volte penso di non avergli mai perdonato del tutto la svolta presa dalla mia vita, in seguito alla sua superficialità di allora, del tempo in cui mi sarei gettata nel fuoco per lui, tanto ero perdutamente coinvolta in quel divorante sentimento della mia prima giovinezza.»
Il clic dell’ascensore, arrivato al piano, la richiamò alla realtà del momento.
La  stanza che li accolse era ampia ed intima nel contempo. Ammobiliata con gusto raffinato, proprio perché essenziale. I cuscini erano quei buffi cilindri, amati dai francesi, modello “ti verrà il torcicollo”. Sopra il tavolino, proprio sotto la finestra, una corbeille di gardenie, il fiore prediletto da Giuditta che, all’epoca del loro amore giovanile, usava portarne di fresche tra i capelli o allo scollo dell’abito da sera.
Evidentemente, Flavio, quando aveva telefonato ad Elisabetta, per avvertirla del ritorno rinviato, aveva trovato il modo di disporre che questi candidi fiori fossero accomodati nella loro camera.
«Cena in stanza!» – esclamò Flavio, sfoggiando la sua voce più suasiva.
«Ok!» – laconica, Giuditta.
Ordinarono una soupe leggera (lei adorava le minestre liquide al cucchiaio e in Francia ne cucinano di gustosissime) e poi ostriche e champagne millesimé dell’annata migliore e frutta fresca, tanta frutta, che fu recapitata in un traboccante cesto.
L’atmosfera era cambiata a causa della volubile, contraddittoria Giuditta.
Cosa le sarebbe costato smetterla di elucubrare e concedersi finalmente una notte “vera” d’amore con l’uomo che aveva rimpianto per tutta la vita?
Non capiva che ora l’aspettava dietro l’angolo il rimpianto del rimpianto?
Eddai, e lasciati andare per una volta! E accettalo questo dono del destino!
Quante storie e ripensamenti. Non sei più nel fiore degli anni, regalati e regalagli questa consolazione.
Flavio capì e accettò la situazione pirandelliana.
Sì, il grande agrigentino avrebbe scritto un finissimo dramma sui tira e molla di questa incontentabile signora che rifiutava il frutto tanto agognato, proprio ora che stava maturando nel suo piatto.
E mangiò pure d’appetito – certamente più del suo sconfitto compagno – sorseggiò lo champagne, deliziata dalle bollicine; mise abbondante limone sulle ostriche ben pepate; piluccò l’uva, ammirando la cristallina trasparenza di acini gonfi di succo.
Si prepararono per la notte.
Flavio uscì dal bagno indossando uno dei suoi pigiami di seta troppo nuova, odoroso di colonia, inutilmente atletico, con appena un sospetto di pancetta.
Giuditta, espletate le sue abluzioni serali, con indosso una semplicissima camicia écru, senza pizzi, né ornamenti, e una leggera liseuse (freddolosa lo era da sempre!) si mise sotto le coperte, senza ansia, né tremori.
Si abbracciarono con dolcezza, con un abbandono – almeno da parte di lei! – con una voglia di coccole amichevoli, di comprensione intensa.
Fecero progetti di un’amicizia a lunga durata che lei sapeva che non avrebbe rispettato, che lui sperava che lei non rispettasse.
Erano sfasati nei tempi. Anche il desiderio si esaurisce, per consunzione, per aver sfibrato troppo la corda.
La colpa non era ormai di nessuno dei due.
Dormirono, anche, nonostante tutto.
Un’alba di perla entrava attraverso lo spesso tendaggio alle finestre, portando nella stanza un riverbero irreale, in piena sintonia con la loro “interiorità”, quasi la luce si adattasse a quella situazione anomala, da sogno malriuscito. Anche le luci, a volte, hanno una loro intelligenza di uomini e cose circostanti, come se emanassero dal di dentro, espressioni di un pensiero, invece che di un fenomeno fisico.
Valigie riassestate in fretta, telefonate a casa, orribile caffè lungo ingentilito da un croissant appena tepido, e via, in taxi verso l’aeroporto, lasciandosi alle spalle una Parigi delusa da quegli amanti a metà.

 

Flavio & Giuditta

(due) 
  
 

 

 

Alzandosi dal letto, Giuditta, istintivamente, percorse con la mano il candido lino del lenzuolo, sentendolo tra le dita, come un malinconico sudario. Spesso era presa da questi oscuri pensieri, flash improvvisi che attraversavano la sua mente con la rapidità di un lampo, tale da lasciarle una vaga amarezza di fondo. Flavio l’attendeva all’ingresso, già con il soprabito sul braccio. Sarebbero scesi subito per la prima colazione che avrebbero consumato giù, nella sala comune, in mezzo al chiacchiericcio degli altri ospiti dell’hôtel.
«É ben vestito, ma non è elegante – pensò Giuditta – porta gli abiti come se fossero appena usciti dal negozio, troppo impeccabili, troppo stirati, senza quell’orma di vissuto che sa dare naturalezza. Rise fra sé, al pensiero di suo padre, il raffinato artista, che stazzonava l’impermeabile nuovo prima di indossarlo, proprio allo scopo di togliergli la rigidezza di un indumento senza storia. E Stefano? Vestiva casual, ma era un uomo fine, senza artefazioni. Come farò a raccontare alle amiche del soggiorno quasi bianco, se si eccettuano i baci e poco altro, fatto solo di attese e prolungati languori, con l’uomo che avevo rimpianto e desiderato tutta la vita? Io l’avrò certo smontato con tutte le mie remore e rinvii, ma nemmeno lui mi è parso il macho che appariva allora, tipo “se ti acciuffo ti stropiccio”…La romantica Paola resterà in parte appagata dalla descrizione dei baci appassionati e in parte delusa dalla rinuncia; l’efebica Silvia, ultrasbrigativa, commenterà, ironica: “una scopata persa, non la recuperi più”…»
In ascensore, Flavio, la strinse a sé con un abbandono rapido, quasi addolorato, che pareva sottintendere la stranezza della loro situazione, una vera anomalia da romanzo, quale amico avrebbe potuto credere al fatto che – dormendo in una doppia suite, con tutto l’agio che avrebbero avuto per “copulare”, come dicono le persone che parlano bene – si erano limitati a gesti d’amore quasi sempre “fuori stanza”; sì, gli venne proprio questa burocratica espressione che usava la sua segretaria, quando a un cliente inopportuno, flautava: «l’avvocato è fuori stanza!»
Colazione quasi silenziosa, ambedue raccolti nei propri pensieri.
Flavio è stato ospitalissimo – pensava Giuditta – mi ha offerto una Parigi turistica e non, mi ha accompagnato in angoli incantevoli, eppure, forse, mi porterò a casa proprio quello che lui non ha visto. Preso dalla grandeur luccicante della città, che si sia accorto del Pont Neuf  riflesso nella Senna, così spezzato dal vento sull’acqua; del riquadro di cielo scritto da leggeri batuffoli di nuvole che vediamo proprio ora dalla vetrata; della strana associazione “grafica” tra il rosone centrale di Nôtre Dame e il volto rugoso di quella donna seduta noi dirimpetto; che sappia che ho gradito più di tutto quella rosa strappata con gesto di monello, dal muretto di un giardino, per donarmela stillante linfa, rosa che conserverò per sempre, anche dopo essiccata, perché in amore sono feticista? Che abbia notato quel buffo bambino con una baguette di pane sottobraccio quasi più grande di lui? Che abbia sentito quel vento parigino sulla pelle che, così frizzante,  non spira in altre città? Che si renda conto che stiamo vivendo il clima di un film di Buňuel, dove l’«oscuro oggetto del desiderio» prevale sull’appagamento?
«Tra un po’ dovremo fare le valigie e dirigerci verso l’aeroporto» – la fece sobbalzare, Flavio, riportandola alla realtà del ritorno a casa.
«Certo, godiamoci gli ultimi istanti, senza parlare» – era entrata nella fase in cui preferiva parlarsi, e questo solipsismo, ultimamente la invadeva spesso, chiusa com’era in un matrimonio afono, faceva fatica a riprendere gusto nel dialogo, quello gioioso, che l’aveva così fatta innamorare del Flavio di allora…
A valigie fatte  e taxi prenotato, arrivarono senza fretta in aeroporto, confusi dentro una folla multicolore, un vero mosaico di diversa umanità.

 
 

 


(immagine dal web)
Flavio & Giuditta

 

Gli accordi erano stati: «stanze separate», e Flavio venne ad un sottile compromesso. Una suite con stanze comunicanti, gli sembrò la soluzione più opportuna. Entrambi si ritirarono nella propria camera a disfare i bagagli. Durante il viaggio in aereo e poi in taxi e quindi in ascensore, il rubacuori di un tempo, seppe comportarsi con una delicatezza nuova, che non gli era propria, non sappiamo bene se spinto da naturale ravvedimento o dal desiderio di riconquistare Giuditta a tutti i costi. Era presto per la cena.
Decisero di vagare un po’ per la magica città.
«Speriamo non mi faccia fare una cura di musei e biblioteche -, pensava fra sé l’irrequieto avvocato che mai aveva penato tanto per avere una donna, in vita sua – Cara, forse domani vorrai prenotare per il Louvre, o per la Gare d’Orsay che Gae Aulenti ha saputo mirabilmente mutare in elegantissima pinacoteca degli Impressionisti – le disse, a voce alta, con gli accenti morbidi che teneva in serbo per le grandi occasioni.»
«Gireremo dove l’umore ci porta» – rispose lei, uscendo sorridente dalla penombra della sua stanza, con quell’incedere morbido, nonchalante, della donna che il fascino lo porta dentro, come una fiamma racchiusa, che gli insulti del tempo sembrano quasi impreziosire, come se gli esiti del vissuto, sul volto e in tutta la sua persona, l’avessero umanizzata, fatta scendere a terra, resa più vera.
Flavio aveva conosciuto donne più avvenenti per perfezione esteriore, ma nessuna aveva avuto quel quid difficile a descriversi, quel “non so che” da bollicine di champagne nella bocca dello stomaco, e ora la giovinezza perduta riprendeva il suo nuovo canto, con voce vibrante di una dolcezza a lui prima preclusa.
Tenendosi per mano, risero per cose futili, come due studenti in vacanza, ridendo per le vecchiette con buffi cappellini, per i turisti giapponesi formato tascabile, per gli orribili ritratti, opera di pittori da quattro soldi, pronti a ritrarli all’istante,  cercando di evitare gli escrementi di cane che lordavano i marciapiedi (mai visti così tanti in vita loro!) pensando che questa nota antiromantica regalava “quotidianità” a quel loro momento, togliendo un po’di magia, forse, ma aggiungendo realtà, ritorno con i piedi per terra, piedi da sollevare al momento opportuno, se non volevano combinare malanni…
«Dicono che porti guadagno!»
«Meglio restar poveri, soprattutto se arricchiti dai sentimenti ritrovati».
«Non esserne troppo sicuro!»
Cenarono in un ristorantino delizioso, lungo una  Senna solcata da bateaux mouche, gremiti di turisti vocianti, portati lì da un tassista calabrese che parlava una lingua simpaticissima, quasi incomprensibile, ma festosa, fatta di suoni, quasi ideogrammi fonici, dalle molteplici interpretazioni.
Frutti di mare rubati l’uno dal piatto dell’altra, con la medesima forchetta, complice e maliziosa, nell’introdursi alternativamente nelle loro bocche, piene di pregustate aspettative, annaffiati da un vino secco che metteva allegria, fu la loro cena condita da un estenuante languore.
Vi era qualcosa di sensualmente crudele (o di astutamente predisposto?) in quel continuo rinviare, da ragazzi per il candore di lei, ritrovatisi adulti in riva al mare, per le balzane esitazioni di lui, e ora perché non sapevano ancora se la suite avrebbe continuato a tenere le loro notti separate, o se finalmente li avrebbe appassionatamente uniti
 Venne l’ora di chiamare a casa. Ancora non erano stati inventati i cellulari.
Nella voce di Stefano si sentiva un fondo di inquietudine che comunicò ansia a Giuditta. Il torneo di bridge non stava dando i soliti vittoriosi frutti, quindi se fosse finito prima del previsto, Stefano avrebbe potuto raggiungerla a Parigi e restare con lei, fino alla fine dei suoi impegni «nel mondo del libro.»
Proprio così si espresse, quasi a sottolineare, un mondo solo suo, dove a lui era difficile entrare.
Elisabetta fu laconica ed ineffabile come sempre, abituata alle distrazioni coniugali, rassegnata ai suoi ruoli secondari nella vita in comune.
Passeggiarono lungo la Senna, immalinconiti, il momento magico di prima stava sbiadendo, la tensione, quella che fa brillare gli occhi, asciugare la gola, tendere il corpo tutto, totalmente vibrante, stava lasciando il posto a una complicità tenera, amicale, nuova, quasi rassegnata…

(dico a voi che mi state leggendo – bontà vostra per davvero – come vorreste che finisse questa storia parigina tra i due quasi amanti che si sono ritrovati, dopo due sbiaditi matrimoni? Meglio che restino amici o li facciamo consumare?) g.g.
 

 

1) Newwhitebear
consiglierebbe il finale: "Nella voce di Stefano si sentiva un fondo di inquietudine che comunicò ansia a Giuditta".

2) Mimma (Domenica Luise): "questi due sono già amanti nel pensiero e nei desideri, le esitazioni sono secondarie e, a mio parere, passeranno a vie di fatto quanto prima. Tuttavia non funzionerà ugualmente, sarà un episodio e la rassegnazione avrà la meglio. La vedo triste!"

3) MisiaMisia la vde così: "

Uhm.. io direi di non farli consumare subito.. più in là..
E poi lui si ritrova a perdere la testa per una donna che è diversa da quella che ricorda, mentre lei se ne ritorna tranquillamente alla sua vita perché lui è ancor peggio di quello che ricordava.  Ma per Parigi vale sempre la pena!….
Finale troppo cinico che sa di vendetta?.. Chi lo sa!.. "

4)La mia diletta Annamaria dice che. "Un tempo non c'erano i cellulari e qui sta il punto, cara Grazia, se Elisabetta ha voluto ugualmente telefonare al marito, cercando un telefono, sta a significare che non è staccata completamente dalla vita coniugale, quindi sarebbe un rapporto solo carnale, senza complicazioni sentimentali e non credo che la protagonista sia una donna facile alle avventure. Suppongo che Elisabetta abbia già preso la sua decisione, passerà la notte da sola nella sua camera e il bel Flavio, continuerà ad avere il ruolo amicale"

 
 

Ripropongo

  Ombra

La   tinta polvere di cielo e mare mi parve un colore letterario, soltanto pensato per scriverne adesso; invece stavo "vivendola" in quel momento, proprio mentre stavo camminando a fianco del mio anziano amico. E fu lì – in quell'istante – che ebbi anche piena consapevolezza della vecchiaia di Sandro: camminava con passo greve, lasciando orme profonde lungo il bagnasciuga, mentre con mano lenta, chiazzata di efelidi che sembravano piccoli schizzi di caffè, cercava di togliersi da un occhio un cernecchio ispido, rivolgendomi a tratti, uno sguardo opaco, di persona che non ha più troppe curiosità, che guarda la vita attraverso un filtro che ne sfumi i contorni.
Soffocò dentro un aspro colpo di tosse l'inizio di un discorso che si perse nell'acciaio del mare. Riprese la parola sogguardandomi di profilo, come se non volesse esporsi ad un rapporto troppo diretto, quasi parlasse a se stesso, impaurito dalle emozioni.
"Perché mi chiedi sempre di Lorenzo? Sai bene che è stato il mio partner privilegiato di disquisizioni intellettuali, di sogni giovanili. Una specie di alter ego per spirituali affinità elettive; un amico di rara intelligenza e di rarissimo cuore. Cosa ti spinge a tanta insistente curiosità?"
"Sei dunque così egoista da non voler dividere, nemmeno virtualmente, con me il privilegio di tanto eccezionale amicizia? O meglio – mi correggo -, il ricordo di un sentimento tanto grande ed irripetibile? Non ho mai conosciuto nessuno di tanto speciale, artista dell'idea, poeta e pittore inquietante e quindi non vedo nulla di male nel fatto che mi piaccia un poco sognare sui vostri dialoghi giovanili, sul vostro parlare di letteratura e filosofia. Avrei voluto vedervi, non solo immaginarvi, quando anche voi, come Gottfried Benn, sognavate il grande autore dello Zarathustra, al punto da non poter più nemmeno "fare un passo della vostra vita senza adorare questo sogno". Avrei voluto anche sentirvi parlare di ragazze, capire in quale conto tenevate la donna e quale donna poteva attrarvi. Avrei voluto indagare dentro le vostre speranze, lasciarmi cullare dalla brezza delle vostre malinconie. Sedermi con voi alle "Giubbe Rosse", rabbrividire per la prima cucchiaiata di gelato, quella che apre la via al primo frammento di sapore".
"Sei certa che avremmo gradito questa tua intrusione? Questo tuo voler rubare il miele della nostra amicizia, l'esclusività delle nostre confidenze?"
"Oh, sì. Avrei fatto di tutto per farmi amare…"
"Da me o da lui? Attenta che era un fascinatore. Un uomo irresistibile. Avresti potuto restarne folgorata".
Un'onda più lunga, e già colorata di notte, bagnò in quel momento le mie scarpe e l'orlo dei calzoni di Sandro. Stavamo entrando in un autunno che già spasimava verso l'inverno.
La cenere, che sembrava tingere il nostro mondo di quell'ora, fu sopraffatta dalla pece dell'ora notturna, forata in cielo da poche stelle e lì, vicino a me, dalla brace della sigaretta che ora pendeva dalle labbra del mio amico. Sentivo il suo respiro un po' ansimante (per la fatica di camminare sulla sabbia bagnata o per l'emozione dei ricordi?), ma non smettevo di chiedere, di scavare dentro lo scrigno, solo in parte aperto, mai veramente spalancato, della loro giovinezza comune.
"Ho saputo che ha avuto una passione di fuoco per una bella donna e che avrebbe voluto abbandonare moglie e figli".
"E io l'ho esortato a seguire la voce del cuore, ma la sua generosità l'ha indotto a sacrificare se stesso, per evitare ai suoi di casa troppa sofferenza".
"Com'era quella donna? Descrivimela".
Sandro si voltò a guardarmi in volto nel buio, e – come se mi vedesse solo allora –
"Era il tuo 'doppio'" – mormorò, accigliandosi.
"Un sosia? Un clone della mia immagine?"
"Basta, cerchiamo un posto dove mangiare"
Fu lui a riprendere il discorso, dopo un mio lungo silenzio, ormai seduti, all'interno di un ristorante semideserto, davanti a un piatto di sogliole non troppo invitanti, del tutto in carattere con il clima cupo che si era creato.
"Ti rendi conto della morbosità della situazione? Ti stai innamorando di un morto, di un uomo che non hai mai visto, di cui conosci parzialmente l'opera e l'originale pensiero. Ma cosa ne sai dei suoi tic, delle sue debolezze, del suo modo di sorridere, arrabbiarsi, del suo odore, delle sue smorfie, dei piccoli momenti della sua vita piccola. Anche i geni, i superuomini hanno momenti di fisicità minima; non passano certo la vita a interpretare Nietzsche e Benn. Sai se ti piacerebbe veramente toccare la sua carne ed essere toccata da lui? Credi che un suo bacio ti farebbe impazzire, e magari l'odore del suo fiato – fumava tante sigarette, sai? – potrebbe averti indisposta, male impressionata. Non si può amare un uomo raccontato, eroicizzato. Non si può innamorarsi di un fantasma, di un'ombra. Oltretutto, ingelosendomi, mi fai essere involontario complice di una situazione così insana ed assurda".
Ci salutammo, stanchi per la passeggiata e ancora più per la difficile conversazione. Salimmo nelle nostre camere, una di fronte all'altra. Sentivo Sandro muoversi irrequieto. Temevo soffrisse, oppresso dalla sua sempre più oscura fatica di vivere, complicata ora anche dal mio paradossale e capriccioso atteggiamento.
Mi svegliai in un'alba di latte. Lo specchio rimandò l'immagine di un donna appagata dalla consolazione di essere stata un doppio, ma risolta a cambiare esistenza.

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

Atmosfere

“Cosa stai farfugliando? Sembri biascicare orazioni…”
– No,  no non prego, figurati! Mi racconto storie.
“Sorie? Spiegati meglio.”
-Non sono vere e proprie trame ben definite. Insomma, ricreo atmosfere, climi dell’anima di tempi passati e attuali, entro dentro quell’alone, quella specie di aureola che delimita il vissuto dei personaggi, respiro la loro aria, degusto il loro clima.
“ E ti illudi di essere Maria Antonietta sul patibolo o Ava Gardner o una donna del mondo politico o della cultura,  o – più prosaicamente – la signora della porta accanto. Quella che cuoce succulenti piattini?”
-Vedi che non hai capito? Lo so che è difficile far comprendere, a chi non è allenato a questo gioco, il gusto di respirare una frazione di storia altrui, essendoci. È l’ esserci in  quel momento che mi intriga. Potrei entrare sul set di Lezioni di piano (hai presente quel raffinatissimo thriller?) e godere di quei paesaggi cupi, brumosi, facendo mia l’atmosfera ambigua, oppure giocare sul prato di fronte a casa, a pallone coi bambini del vicinato.
Adoro immaginarmi seduta sotto il pergolato di glicine di una vecchia villa in collina. Piccoli aghi di sole, filtrati tra i racemi d quel cielo viola pallido, scrivono geroglifici su tavoli e seggiole sottostanti, sono messaggi che potrei metterci mesi a decifrare. Quando ero bambina aprivo quelle fragili corolle e ne succhiavo un breve pistillo bianco all’interno: è quell’anima zuccherina che ha dato il nome al glicine. Così, mentre entro nell’incanto di queste mie vite dell’altrove, coccolo  anche il mio vezzo di perdermi dentro l’etimo delle parole, trasferendomi nelle note a margine di un libro, mio luogo prediletto.
“Oddio, come sei complicata!”
-Non sono io ad essere complessa, siete voi che vi accontentate  di poco. Dovete fare la valigia veramente, prenotare aerei e treni per recarvi in luoghi insulsi dove vanno tutti, facendo banalissimi viaggi. Il mio viaggio è interiore, imprevedibile. Nasce dal di dentro, dalle mie fantasie.
“Non ti senti un po’ voyeur, quasi ladra delle vite altrui?”
– L’aria è di tutti.
“Non quella del chiuso di una stanza. Così facendo potresti entrare anche nelle camere da letto dei protagonisti delle tue atmosfere, così come le chiami. Persino sotto le loro lenzuola. Questo non ti sembra indiscreto e imbarazzante?”
-Direi proprio di no, sapessi come la gente è distratta! (g.g.)