Archive for settembre 2009


immagine dal web
Baarìa
A proposito di Baarìa, leggiamo qui sotto il bell’articolo di Francesca Neri, preso dal Web, pur mantenendo qualche nostra perplessità, visto che questa nuova opera di Tornatore non ci è apparsa all’altezza della poesia e finezza di Nuovo Cinema Paradiso – sarà anche perché là c’era quel gigante di Philippe Noiret,  insieme alla novità dell’argomento. Insomma, intendiamo dire che questo nuovo film tanto reclamizzato, ai nostri occhi ed orecchi è sembrato un po’ baccanifero e farraginoso. Che sia che stiamo invecchiando e i nostri gusti estetici si sono fatti un po’ ingessati? Bellissime comunque le immagini. Superlativa la fotografia, tanto che Tornatore è stato paragonato a Luchino Visconti per la corsa alla bellezza, alla perfeziome estetica.
Sentiamo un po’ i vostri pareri e giudizi in proposito.

 Baarìa, la porta del vento

Il cinema diventa poesia nell’ultimo film di Giuseppe Tornatore
Il mondo in poche centinaia di metri. È questo lo sperduto microcosmo, a sua volta parte di un piccolo lembo di terra (la Bagheria), in cui è ambientato Baarìa. Eppure Giuseppe Tornatore (premio Oscar nel 1989 per Nuovo Cinema Paradiso) ci ha visto la vita in quella parte di Sicilia e, per un bel pezzo, l’ha persino considerata l’unica possibile.
La sua Bagheria (dall’arabo “la porta del vento”) iniziava a via Gioacchino Guttuso 114 e finiva alla rotonda di Palagonia; per ricostruirla al tempo della Seconda guerra Mondiale – il film infatti ripercorre la storia di Baarìa dagli anni ’30 fino agli anni ’80 – ci son voluti 12 mesi di costruzioni scenografiche in Tunisia.
Più che un film Baarìa è un inno alla sicilianità, alla tradizione, al passato. Mescolando miti e leggende di un paese, Tornatore ha raccontato con passione e amore di figlio la sua terra natia. L’ha fatto ripercorrendo le vicende di una famiglia (che è la sua), i Torrenuova, affidando i ruoli di protagonisti ad attori quasi sconosciuti, Margareth Madè (un passato da modella) e Francesco Scianna, ai quali fanno da contorno 63 attori professionisti e 35 mila comparse. C’è Michele Placido nel ruolo di esponente del Pci, Nicole Grimaudo, Lina Sastri indovina, Luigi Lo Cascio nella parte dello scemo, Beppe Fiorello è un venditore di dollari, Raoul Bova giornalista, Ficarra e Picone, Nino Frassica politico (corrotto), nel film tutti all’attivo con una battuta o due al massimo.
La lente di Tornatore, incorniciata dalle splendide musiche di Ennio Morricone, si sofferma sul passato di una comunità antica ed incontaminata, fatta di miseria e povertà, di fervore politico e mazzette, di guerra e ribellione, di ricchi e poveri, di comunisti e fascisti. Tra gli stenti c’è chi prova ad avvicinarsi alla lettura – il piccolo Cicco vuole studiare ma la capra gli mangia il libro -; per cambiare il mondo qualcuno cerca di attuare (a proprie spese e a suon di mazzate) la riforma agraria tanto agognata dai contadini; altri manifestano in corteo e con un bottone nero cucito addosso in segno di lutto (è il giorno del massacro a Piano della Ginestra); altri ancora a Bagheria si formano per diventare i Guttuso dell’arte e i Tornatore del cinema.
Bagheria non è solo storielle e superstizione. Bagheria, là dove la nascita del quinto figlio vuol dire stringersi ma con gioia, è maestra di vita (erano poveri ma avevano tutto). Fra le sue vie affollate e polverose, ha sottolineato lo stesso Tornatore, si è fatta la Storia (quella con la S maiuscola) degli Uomini (quelli con la U maiuscola). Di oggi non potremmo dire lo stesso.
 
 


Yu Dan
Confucio è tornato di moda per merito di YU Dan, una graziosa studiosa cinese, plurilaureata nella sua terra, che ci propone un volumetto La vita felice secondo Confucio (Longanesi, pp.167, euro15) che sta ottenendo un successo mondiale, con oltre 10 milioni di copie vendute. Un vero caso editoriale.
Perché? La gente ha bisogno anche di semplicità, attingendo alla sapienza antica atemporale, quella che non invecchia e non mette le rughe e non ha bisogno di sovrastrutture di sorta. Un tuffo nella saggezza, ogni tanto, senza esagerare, può ridare pace a noi tutti. Così, almeno, speriamo.


immagine dal web

Settembre
Ecco come Herman Hesse ha visto settembre, questo mese di transizione dove la calura dell’estate si attenua e già si ha sentore di pallide foschie che – da noi, in Polesine – diverranno felpati sudari di nebbia. Ma, ancora brilla in cielo il  sole. Godiamoci questi ultimi tepori settembrini 

Una poesia per Settembre

Settembre
Triste il giardino: fresca
scende ai fiori la pioggia.
Silenziosa trema
l’estate, declinando alla sua fine.
Gocciano foglie d’oro
giù dalla grande acacia.
Ride attonita e smorta
l’estate dentro il suo morente sogno.
S’attarda fra le rose,
pensando alla sua pace;
lentamente socchiude
i grandi occhi pesanti di stanchezza.
Hermann Hesse
( Poesie )


Survivre

Restando sempre in tema Némirovsky, trovo di estremo interesse l’intervista che potete qui leggere, dove la figlia Dénise (molto simpatica, già l’avevamo sentita in voce nella trasmissione radiofonica Farehnait) racconta l’origine di Survivre e chiarisce punti oscuri inerenti la vita e la tragica fine della madre, g*

Per chi ama Irène Némirovsky ripropongo
 alcune mie recensioni dei suoi romanzi

Un folgorante capolavoro
DAVID GOLDER

 

Pochi invero sono i romanzi capaci di conservare intatta la capacità di emozionare il lettore ottant’anni dopo la prima pubblicazione. Questo è il destino di David Golder, opera prima di Irène Némirovsky (Adelphi, traduzione di Margherita Belardetti, pp.180, euro 16) che continua ad affascinare, proseguendo il destino di tutta la scrittura dell’autrice russa, rifugiata a Parigi in anni giovanili, morta ad Auschwitz, di cui già abbiamo ammirato lo splendido Suite francese, pubblicato e pluripremiato postumo.
Siamo nella capitale francese nel 1929 quando Bernard Grasset ha appena finito di leggere il manoscritto di David Golder, ricevuto per posta, senza il mittente. Folgorato dalla bellezza del romanzo, l’editore dovrà ricorrere ad un annuncio sul giornale per rintracciare la ventiseienne autrice, elegante, briosa, appartenente alla haute di una classe sociale che vive nel lusso e nella spensieratezza. E Grasset resterà stupito dalla giovinezza di una penna che sa scrivere col piglio consumato di uno scrittore di razza, capace di dare persino un taglio cinematografico alla sua pagina che ispirerà registi come Julien Duvivier negli anni Trenta e Gregory Ratoff vent’anni dopo, tanto è suggestiva la vicenda di Golder, l’ebreo di Odessa, emigrato giovanissimo che – dopo esser divenuto molto ricco in campo internazionale – ora si trova in cattive acque. “Era un uomo di più di sessant’anni, enorme, con le membra grasse e flaccide, gli occhi color dell’acqua, vivacissimi e opalescenti… il viso devastato, duro, come plasmato da una mano rozza e pesante” . Così la Némirovsky ci descrive il suo protagonista, attingendo anche a reminiscenze personali, visto che la sua famiglia originaria di Kiev, apparteneva a banchieri plutocrati, rifugiatisi in Francia dopo la rivoluzione di ottobre. Subito ci appare spietato questo Golder, una macchina da soldi senz’anima, pronto a indurre, senza scrupoli,  al suicidio il socio Simon Marcus. Il destino di Golder è quello di rincorrere il danaro calpestando chiunque, attorniato dalla diffidenza e disistima di chi lo circonda. La moglie Gloria lo tradisce spudoratamente, mantenendo amanti a spese del marito (sembra che l’autrice si sia ispirata alla vita della madre, quella Fanny non precisamente amata), raggirato dalla figlia Joyce, pronta a tutto per estorcergli moneta. Moglie e figlia non avranno pietà del suo stato di salute della sua angina pectoris, interessate solo a soddisfare i loro vizi. Una sottolineatura speciale merita la crudeltà di Gloria quando istilla nella mente del marito il dubbio sulla sua paternità. Quella Joyce tanto viziata e in tutto accontentata, potrebbe dunque esser figlia dell’amante? E l’autrice dà segno di ben conoscere quel mondo fatuo e corrotto che sta descrivendo, poiché lei stessa ha vissuto i suoi anni giovanili in un’atmosfera da belli e dannati alla Fitgerald Scott – tra la capitale francese e Biarritz -, prima di sposare il banchiere russo Michel Epstein. Il matrimonio porterà serena maturità alla brillante Irène, un’ebrea “dissidente”, inutilmente convertita al cattolicesimo nella speranza di salvare la pelle.
Dunque, David Golden è un romanzo autobiografico, crudele e spregiudicato, nello stile prosciugato che l’autrice ha mantenuto anche in Suite francese, in cui la Némirovsky guarda al microscopio il suo mondo di appartenenza, fatto di prospettive materialistiche e fatue, il mondo degli affari sulla pelle del prossimo, spesso degli ebrei nuovi ricchi il cui unico obiettivo sembra essere quello di diventare ancora più ricchi. I sentimenti sembrano non esistere, relegati in secondo piano. Umanità e solidarietà sono utopie. La sopraffazione la fa da padrona, umiliando e schiacciando chiunque, anche se nel finale del romanzo un soprassalto di sentimento si fa spazio fra tanto cinismo, visto che l’incallito ebreo, devastato dalla malattia, si avventura nell’ ultima impresa finanziaria per salvare la giovane Joyce, pur nel dubbio che si tratti veramente di sua figlia. Un estremo bagliore di luce, nel buio di tanto cinismo.
Grazia Giordani

Sinfonia in due tempi

Suite francese
Troppo spesso chi si occupa di critica letteraria tende a parlare di “capolavoro”. Ma nel caso di “Suite francese” di Irene Némirovsky (Adelphi, pp.415, euro 19) le lodi sono più che meritate, perché ci ritroviamo tra le mani un romanzo di rara bellezza, nell’elegante traduzione di Laura Frausin Guarino, impreziosito dalla postfazione di Myriam Anassimov .
Pubblicato postumo in Francia, a cura della figlia Denise Epstein che per ben sessant’anni aveva conservato il manoscritto della madre, vergato in finissima scrittura, chiosato con appunti e note della stessa autrice , questo prodigioso romanzo, giunge a noi in Italia a un anno di distanza. Scritto in presa quasi diretta con gli avvenimenti narrati dei primi bombardamenti su Parigi, con la fuga precipitosa degli abitanti atterriti per l’arrivo dei tedeschi nella capitale francese nel giugno del 1940, la narrazione ci porta al centro di una storia tanto straordinaria quanto struggente. Il progetto iniziale della scrittrice era quello di ritmare le sue pagine nella struttura di una sinfonia per cui – apprendiamo dalle sue stesse note che appaiono in Appendice – avrebbe dovuto avere un andamento in cinque movimenti, ma noi possiamo leggerne solo i primi due, rammaricandoci della forzata “mutilazione”, perché la sfortunata autrice ebbe il drammatico destino di essere arrestata e poi deportata a Auschwitz..
Nata a Kiev, figlia di un banchiere ebreo, la Némirovsky già aveva conosciuto il dramma della fuga ai tempi della rivoluzione russa del 1917. In Francia aveva trovato l’amore – sposandosi nel ’26 con Michel Epstein – e il successo di affermata scrittrice. Madre di due figlie, conduce un’esistenza piacevole e agiata finché il destino non le riserva il fatale epilogo. Sarà dalle mani del padre, in seguito vittima della stessa fine, che le due piccole figlie riceveranno il manoscritto con le due prime parti del romanzo. Vivranno nascoste, affidate a una affezionatissima tata per tutto il periodo bellico. È stata molto toccante la testimonianza che ha reso per noi Denise, nel corso di una recente trasmissione radiofonica di Rai tre, dove intervistata da Sinibaldi, ha ricordato come lei e la sorellina avevano atteso il ritorno dei genitori, sperando di rivederli tra i sopravvissuti ai campi di sterminio, e come per molti anni non avevano avuto il coraggio di leggere quelle quattrocento pagine di un romanzo in cui verità e finzione si sposano in un inscindibile e commovente connubio.
La carrellata di personaggi parigini in fuga, descritti dall’autrice, spesso corrisponde a figure reali, veramente conosciuti anche dalle due bambine. Vedasi la famiglia borghese dei Péricand, paradigma della buona borghesia francese, squallidamente conformisti, ingessati nei loro pregiudizi, di cui lo sguardo disincantato dell’autrice ci regala ritratti di alta bravura, ridicolizzandone i limiti e le manie e i tic, in maniera indimenticabile. Così, dopo aver letto della parsimoniosa oculatezza della signora Péricand che imballa ogni cosa per la fuga da Parigi e porta scrupolosamente con sé i suoi beni materiali e i suoi figli e i suoi domestici e il suo spirito caritatevole sempre esibito, non possiamo non restare esilarati dalla sua non certo piccola dimenticanza del suocero disabile in carrozzella :“Guardò ancora una volta tutto quello che era riuscita a portare con sé, ‘tutto quello che aveva salvato!’: i suoi figli la sua valigetta. Toccò i gioielli e il danaro nascosti sul petto. Sì, in quei terribili momenti aveva agito con fermezza, coraggio e sangue freddo, non aveva perso la testa… Non aveva perso… Non aveva … Improvvisamente gettò un grido strozzato (…) Abbiamo dimenticato mio suocero- disse la signora Péricand, scoppiando in lacrime”. E scene del genere divertirebbero il miglior Dickens. E le pagine della fiumana ribollente dei parigini in fuga piacerebbero a Tolstoj, citato negli appunti dalla stessa scrittrice.
Ritratto indimenticabili anche quello dello scrittore Gabriel Corte, un esteta preoccupato dei suoi manoscritti che ha orrore della povertà, e quello della ballerina Arlette, disposta a qualsiasi compromesso, per la sua sopravvivenza, cinica ad oltranza. E come dimenticare i coniugi Michaud così saggi nella loro modestia e dolcezza, contrapposti all’arido banchiere? E i collezionisti di preziose porcellane, presi solo dal salvataggio dei loro oggetti? Anche l’episodio degli orfani che si rivoltano all’ingenuo prete diventando spietati aguzzini merita una lunga riflessione, proprio perché la “pietas” della Némirovsky spesso è a doppio taglio, colorandosi dell’ossimoro di note crudeli.
La massa di persone in movimento con i personaggi di cui sopra, intenti a porre in salvo soprattutto mobili, suppellettili e argenteria è contenuto nel primo movimento della “Suite française”, intitolato “Temporale di giugno”; in “Dolce” riappaiono di striscio i coniugi Michaud, forse gli unici capaci di mantenere il dignitoso calore della loro umanità. In questa seconda parte del romanzo, protagonista è soprattutto la storia d’amore tra la francese Lucile e il tenente tedesco che ha requisito la sua abitazione. Un rapporto che non ha implicazioni fisiche, fatto di un dolce sentimento, di un’intesa intellettuale e spirituale, un’affinità così coinvolgente da far dimenticare alla donna e a noi stessi che il tedesco è il nemico.
Resta vivo il rammarico dell’opera incompleta, dei tre tempi finali che l’autrice aveva progettato nei suoi appunti, così come aver visto premiato postumo il romanzo in Francia, ci ha riportato – per associazione d’idee – la malinconica immagine delle medaglie d’oro appese al petto degli orfani dei caduti in guerra.
Grazia Giordani
I cani e i lupi di Irène Némirovsky, Adelphi

Némirovsky, il romanzo straziato dalla paura
Ci sono romanzi che sollevano un polverone appena pubblicati e poi cadono nel dimenticatoio, altri che mantengono un certo “magnetismo”, anche se riproposti molti anni dopo la loro prima uscita. Questo ci parrebbe essere il caso di I cani e i lupi di Irène Némirovsky (Titolo originale: “Les chiens et les Loups”, pp.234, euro 18,50), l’ultimo romanzo pubblicato in vita dall’autrice, prima della deportazione ad Auschwitz che Adelphi, intento a ripubblicare l’opera omnia di questa donna dalla penna geniale – di cui soprattutto ricordiamo il capolavoro Suite francese – ha portato in Italia per noi nella bella traduzione di Marina di Leo. Un polverone all’epoca, dicevamo, addirittura con accuse di antisemitismo e persino di captatio benevolentiae per paura delle leggi razziali, tanto che alla prima edizione dello scottante romanzo la scrittrice premetteva un’avvertenza in cui ribadiva la propria intenzione di descrivere il popolo a cui apparteneva così com’era con i suoi pregi e i suoi difetti, persuasa che “in letteratura non vi siano argomenti tabù”. Certo è che gli ebrei venuti dall’ Est, “fotografati” dall’impietosa penna némirovskyana, non ci sembrano portatori di sentimenti edificanti. Ma qui, quello che conta è la valenza del romanzo e la sapiente capacità della sua ipercritica autrice di proporci un plot avvincente, popolato da personaggi che ci lasciano in cuore un segno profondo ed inquietante. In sintonia con buona parte della sua scrittura, anche questa volta la Némirovsky è indirettamente autobiografica – anche se in forma più simbolica che letterale -, riproponendoci le atmosfere, gli stati d’animo, raccontandoci le peripezie di Ada, bambina in Ucraina e poi ragazza a Parigi. Nei suoi anni infantili la vediamo giocare col cuginetto Ben, mentre nelle strade, all’esterno, freme il rombo insanguinato del pogrom che porterà i due bambini, abitanti della parte bassa della città, quella destinata ai poveri, a rifugiarsi presso parenti spocchiosi della parte alta, quella dei privilegiati. Fatale dunque l’incontro con Harry il bambino ricco, ben vestito, paradigma dell’aristocratico benessere a lei negato. Questo privilegiato cugino dai riccioli bruni e dai grandi occhi splendenti, l’affascina in maniera irresistibile, tanto che – dopo il matrimonio con Ben – diverrà la sua amante, incapace di sottrarsi a un fato che la sovrasta. Impossibile riassumere una trama punteggiata da grovigli interiori, ritmata dal gioco contorto fra l’alternanza dei buoni e cattivi, dove cani sembrano essere i ricchi abitanti della città alta – quelli che godono dell’invidiato benessere – e lupi ci appaiono gli avidi cugini poveri, determinati all’inseguimento di coloro che ritengono essere più fortunati. Passione, desiderio e nostalgia del mondo ucraino, lasciatosi alle spalle, abita fino all’ultimo, queste pagine drammatiche, straziate da sentimenti contrastanti.
Grazia Giordani
Pubblicato sabato 12 aprile 2008 ne: L’Arena, Il giornale di VIcenza e Bresciaoggi
Grazia Giordani

Il calore del sangue di Irène Némirovsky, Adelphi

Le confessioni di un viveur francese
Giovedì 16 Ottobre 2008
 

 

NARRATIVA. «IL CALORE DEL SANGUE»
Un viveur francese che la passione porta al delitto
Il testo della Némirovsky è stato rinvenuto nel 2007
 

Ci sono temi che mulinano nella mente degli scrittori come un insistito refrain, quasi un tormentone cui non possono sottrarsi.
E questo è successo anche a Irène Némirovsky – nata a Kiev nel 1903 e morta ad Auschwitz nel 1942 – l’autrice nota al grande pubblico per il best seller «Suite francese» (un milione e 500 mila copie vendute in tutto il mondo).
Come buona parte degli scrittori di ceppo ebraico, basterebbe pensare ad Arthur Schnitzler o a Stefan Zweig, solo per fare due nomi, anche Irène è attratta dai meandri oscuri della psiche, dove abitano i grovigli morbosi del cuore.
Quindi, il nucleo forte de «Il calore del sangue» (Adelphi, pp155,euro11, traduzione di Alessandra Berello, con una nota di Olivier Philipponat e Patrik Lienhardt) si trova in buona parte degli scritti dell’autrice da sempre consapevole di come "la vita sia forgiata a colpi di sangue", visto che già nel 1931 ne «Les Mouches d’automne» aveva fatto dire alla invecchiata protagonista. "Mi ricordo ancora del sangue giovane che mi ardeva nelle vene" e nel 1935 ne «Le vin de solitude»: "Non posso cambiare il mio corpo, spegnere il fuoco che arde nel mio sangue".
Scritto fra il 1937 e il 1938 e ambientato a Issy- l’Evêque, poco meno di mille abitanti, in Borgogna, nell’ Arrondissement d’Autun (quello stesso paesino del Morvan in cui Irène cercherà rifugio con la famiglia e dove sarà poi arrestata) «Chaleur du sang» è stato ritrovato dai biografi e pubblicato in Francia nel 2007.
Fresco di stampa ce lo propone ora Adelphi che sta curando l’opera omnia dell’autrice.
Questa volta teatro dell’azione non è più l’alta borghesia ebraica in cui la scrittrice è cresciuta, o l’ambiente dei ghetti dell’Europa orientale, ma il piccolo mondo agreste della provincia francese.
Qui tutto parrebbe essere terso, pulito, persino insulso, oseremmo dire, visto che incontriamo l’inappuntabili e agiate famiglie che stanno organizzando il matrimonio di bravi figli.
L’io narrante è un viveur ormai invecchiato, lupo solitario in quel paesaggio boschivo, fertile e ricco di misteriosi stagni. Sembrerebbe che nulla dovesse accadere nel tran tran campagnolo di quelle serene vite, ma la penna soavemente crudele della Némirovsky ci invia criptati messaggi, acuminate avvisaglie che ci inducono a scoprire come sotto la levigata vernice di armoniosa serenità agreste, ribolle quel torrido "calore del sangue" che condurrà al reiterato peccato e al delitto, riservandoci un epilogo a sorpresa, secondo la miglior cifra némirovskyana.
 

Grazia Giordani

Data pubblicazione su Web: 16 Ottobre 2008

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I doni della vita di Irène Némirovsky, Adelphi

Irène Némirovsky e il suo geniale ossimoro di spietata dolcezza
Impossibile non pensare a quanti altri prodigiosi romanzi avrebbe potute scrivere Irène Némirovsky (1903-1942) se, nel fiore degli anni e della sua produzione letteraria, non fosse stata barbaramente trucidata dalla furia nazista. Indimenticabile autrice del geniale Suite francese, quel romanzo di rara bellezza, scritto in presa diretta con gli avvenimenti narrati coi primi bombardamenti su Parigi, con la fuga precipitosa degli abitanti atterriti per l’arrivo dei tedeschi nella capitale francese nel giugno del 1940; giudicata, agli esordi, autrice di sconvolgente talento dalla critica francese per il suo David Golder che si stentava a credere fosse uscito dalla penna di una ventiseienne, la Némirovsky ancora una volta sa stupirci col suo I doni della vita (Titolo originale: «Les Biens de ce monde», pp.218, euro 18) che Adelphi, intento a curare l’opera omnia dell’autrice, ci propone nella bella traduzione italiana di Laura Frausin Guarino.
Molti artisti usano schizzi e disegni preparatori ad opere più grandi e finite, questo uso è proprio anche a scrittori che traggono da ampliamenti di racconti, scritti più completi, in questo senso I doni della vita, pur nella sua indipendenza e completezza, potrebbe essere considerata opera preparatoria a Suite francese. Scritto nella seconda metà del 1940, il romanzo apparve a puntate sulla rivista «Gringoire», «come romanzo inedito di una giovane donna» poiché, a causa del suo essere ebrea, Irène non poteva più firmare col proprio nome. E fu stampato in volume solo nel 1947, quando l’autrice era morta ormai da cinque anni nel campo di sterminio di Auschwitz.
Ancora una volta la penna di un’autrice che sa cavalcare l’ossimoro di spietata dolcezza ci regala un quadro disincantato della borghesia francese, un mondo che – dopo la fuga da Kiev dove era nata, nei momenti di fuoco della rivoluzione russa del 1917 – ora gli appartiene, in cui vive e di cui condivide le debolezze. Siamo nella sonnolenta e ingessata cittadina di provincia di Saint- Elme. Qui castellani sono gli Hardelot, proprietari di cartiere , dispotico patriarca il nonno Julien, conciliante e più formale il figlio Charles, allineato con i sentimenti di famiglia il nipote Pierre, unico erede e promessa di salvaguardia del sordido borghesismo familiare, sta per accettare le ragioni di un matrimonio conveniente, combinato con la grassoccia e poco sexy sposa scelta dai genitori (indimenticabili le pagine, venate di umoristica crudeltà, descrittive del fidanzamento) quando prevalgono le ragioni del cuore. Il romanzo, quindi, segue le vicende di Pierre e della sua Agnès dal 1910, fino allo scoppio della Seconda Guerra mondiale, attraversando tutta la Prima. Naturalezza e teatralità descrittiva sembrano stringere un patto d’alleanza nella scrittura némiroskyana che in trenta suggestivi capitoli ci regala tutta la storia degli Hardelot dimostrandoci come la compatta classe media francese sappia restare imperturbabile, scossa ma non abbattuta dalle aggressioni della vita. Persino duttile ai cambiamenti, capace di adattarsi, per non perdere i propri privilegi, incline ostinatamente a difendere quei “doni della vita” cui resta aggrappata, per i quali figli e nipoti hanno saputo battersi nelle varie generazioni, nonostante tutto e contro tutto.
Grazia Giordani

Il suo capolavorissimo resta Suite francese, anche se tutta la produzione Némirovsky è di altissimo livello letterario.
Ora, in Francia, stanno rieditando il suo Survivre che – penso – Adelphi porterà in Italia per noi, g*



Grande e sempre discussa Irène Némirovsky

qui

(dedicato alla cara amica Annamaria)
Sortilegio

Forse l’avevo guardata senza vederla, un po’ come succede con certe immagini subliminali che ci restano nella retina senza che ce ne rendiamo conto, in piena consapevolezza. Naturalmente questo mi è apparso chiaro molto tempo appresso. Nella sala d’onore di una severa biblioteca di provincia ero seduto a presentare il mio saggio sulla vita di uno scrittore grande che considero il mio maestro; l’atmosfera era un po’ ingessata, con un pubblico statico. In mezzo a quella folla (che proprio folla non era, a dire il vero) avrei dovuto notarla, restare colpito dal suo sguardo lievemente ammiccante («è tutta colpa delle strabismo, mi ha detto lei in seguito») e dalla sua figuretta sinuosa chiusa in un tailleur severo nel taglio e trasgressivo negli accessori. Anche l’abito può essere la proiezione di certe nostre doppiezze
«Ho scritto questo libro per rintracciare i punti eminenti della vita di un uomo tra i più colti e raffinati di questo secolo…» – mi ha sussurrato al telefono, nella tarda mattinata di sei mesi dopo, una voce dal timbro “interno” – quasi la portassi da tempo dentro l’orecchio, anch’essa in un certo senso subliminale come l’immagine della signora in tailleur che avevo guardato, credendo di non vederla.
«Scusi, con chi parlo? Replicai meravigliato di sentire citata una frase posta in prefazione al mio saggio».
«Pensa a R* (risatina sommessa), al 7 di giugno…».
«Eri fra il pubblico di quel pomeriggio?».
«Ahité!, c’ero e ho telefonato per ringraziarti a proposito del biglietto che mi hai scritto commentando il mio ultimo romanzo».
«Devo essere un uomo distratto dalle troppe cose che vado facendo e dalla mia naturale disposizione ad aiutare tutti, così fatico a ricordare qualcuno in particolare. Non ricordo il mio biglietto, però non ho dimenticato la tua Ginevra e soprattutto il fuoco che portava dentro. Le somigli?».
Altre chiacchiere vaghe, promesse di rivederci, accordi per risentirci e poi tutto – come molte delle mie troppe cose – cadde nel nulla.
Ormai eravamo nel pieno dell’inverno. Era un pomeriggio uggioso di quelli in cui la pioggia assomiglia a fuliggine e Milano si ammanta di un sudario d’ardesia, senza spiragli di luce. Il telefono suonava incessante, portando messaggi noiosi di cui me ne importava meno che niente.
«…Per secoli gli artigiani corallari trapanesi hanno realizzato gioielli destinati alle collezioni più prestigiose del mondo…».
«G*! Esclamai con gioia, che piacere sentire la tua voce gentile in questo pomeriggio di grande rottura…».
Le nostre telefonate presero un ritmo non regolare, ma piacevole, ci sentivamo in sintonia sotto molti aspetti: lei aveva un’ava mia conterranea, un padre artista – e io stesso lo sono – scriveva, anche se da postazioni più modeste della mia.
«Come sei vestita?- le chiesi d’istinto una mattina, dopo aver lungamente conversato di Dostoevskij, Malher e della mia e sua infanzia, saltando di palo in frasca da temi alati ad argomenti familiari, in un clima colloquiale, che andava ogni giorno più scaldandosi».
«Indosso una vestaglia di seta mauve, con body in tinta – rispose lei, con una lieve incrinatura nella voce, un respiro emesso a metà, trattenuto dentro, che mi accese la voglia di conoscere i suoi “strati” sottostanti».
«La tua voce mi accarezza – mi diceva lei, con un’ansia sussurrata – ha il fruscio della seta e il ruvido di una raucedine che illanguidisce…».
Ormai ci “vedevamo” per telefono con una chiarezza magica che rinfocolava il desiderio, ingigantendolo, traducendo la curiosità in frenesia, infiammando la voglia ogni giorno di più.
C’era qualcosa di magico in questo nostro rendez-vous via cavo, che non aveva nulla di volgare, poiché fioriva naturale dalle nostre labbra (che spesso si congiungevano avide in baci “parlati”, stillanti umore come se fossero veri), ci univa una misteriosa cabala, un clima di solleticante sortilegio…
Dormivo pesantemente, quella mattina. Ormai era primavera inoltrata e un sole sfacciato mi ferì gli occhi quando aprii le imposte della finestra. Il campanello suonò due trilli queruli, come se fosse sfiorato da una mano incerta. Spalancai la porta e sulla soglia apparve lei : non ebbi dubbi ad indovinare che era G*.
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

L’ultimo sortilegio
II

«Buon giorno, disse lei, semplicemente.
Io sorrisi e rimasi un po’a fissarla. «Entra» – dissi poi.
Mi diede il foulard e l’impermeabile, e fu allora che avvertii il suo profumo forte e penetrante: sapeva di gardenia. Certi profumi mi colgono come di sorpresa, mi confondono e mi si attaccano addosso, senza che io possa farci niente; per questo non amo i profumi.
Lei, entrando nella casa che tante volte aveva tentato di immaginare, si guardò intorno come se cercasse qualcosa.
«Esito perché mi sento così estranea, spiegò.
Le indicai il divano. Si sedette con l’aria di ubbidire. Ogni suo gesto sembrava suggerito da un bisogno di ubbidienza.
«Quasi quasi vado nell’altra stanza e ti parlo al telefono» – scherzai.
«Oh, sì. Fallo» – implorò lei, divertita. Le sue gambe fasciate dalla seta delle calze, brillavano nervose. Il suo tailleur verde scuro faceva pensare alla divisa delle hostess. I capelli biondi erano leggermente scomposti sulla fronte, le sue labbra rosseggiavano spavalde, come capita alle signore di provincia.
«Ti ho deluso» – disse lei.
Le presi una mano e l’avvicinai alle labbra. Lei si abbandonò sulla spalliera del divano. Mi fissò con espressione stupita.
Il mio pigiama, sotto l’accappatoio casalingo,appariva spiegazzato, sapeva di sonno innocente.
«Stavo dormendo» – le dissi, sedendole accanto.
«Sto soltanto qualche minuto, ho un treno tra meno di un’ora» – disse lei.
«Una tappa propedeutica»
«In un certo senso sì»
«Sai che la mattina sono più disposto che la sera?»
Eccolo quel suo respiro che tante volte avevo udito nel parlare con lei al telefono. Le presi il volto tra le mani e la baciai. Lei chiuse gli occhi e si abbandonò. Il suo profumo ora mi eccitava e mi eccitavano le sue gambe, fasciate di seta chiara. Il respiro, quel respiro.
«Ora devo andare» – disse lei – con quella sua bocca che mi appariva come il frutto del peccato.

III

La vidi uscire dalla stanza con passo lieve, un po’ stordita. L’accompagnai all’ascensore e la strinsi un’ultima volta tra le mie braccia.
Rientrato in casa, mi guardai allo specchio. Una traccia del suo rossetto sembrava allargare il mio labbro superiore che mi affrettai a ripulire; ma non feci subito una doccia, non volevo togliermi di dosso anche il suo profumo. Mi piaceva adesso sentirlo vivo come un caldo ricordo sulla mia pelle, dentro le pieghe del mio pigiama e negli spazi del mio immaginario. Cominciavo a venir meno a uno dei miei principi; non era più tanto vero che tutti i profumi mi venissero a noia: il suo sapeva di lei, era lieve e sensuale ad un tempo, fresco e carnale, contraddittorio e forse proprio per questo non volevo separarmene.

***

Uscì dall’ascensore barcollando un poco, come se fosse in preda ad una sottile ebbrezza, come se delle stuzzicanti bollicine di champagne la vellicassero dentro. .Per non soffrire troppo del distacco, immaginò situazioni che avrebbe voluto vivere con lui. Pensò a un concerto gustato in sua compagnia. Le aveva detto di amare Mahler. Ecco, erano a teatro ad ascoltare la sinfonia N.4; sedevano accostati, la coscia di lei fasciata di velluto nero strisciava contro quella di lui, chiusa dentro una morbida stoffa di lana. Un brivido caldo percorreva la loro carne, le mani si cercavano e parlavano la lingua delle dita che sanno dire e dare, dare tanto.
Ecco, erano al ristorante e lei si chinava sul piatto più del dovuto e poi si sfilava una scarpina e, maliziosa, posava per un attimo il suo piccolo piede fra le sue gambe.
Ecco,erano in riva al mare e passeggiavano tenendosi stretti, illanguiditi dall’ultimo sole al tramonto Gli occhi di M. brillavano di una folgorante luce scura e nella sua voce vibravano quelle affascinanti note profonde che le entravano dentro, sempre più dentro.
Magia di sogni lontani, inverosimili, letterariamente vagheggiati.

Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 18 Aprile 2006

Il balletto

I racconti di Grazia
 
Sebbene avesse soltanto trent’anni, invecchiava Ornella. Sarà che già a venti era vecchia e forse lo era addirittura prima di nascere, figlia di un matrimonio combinato tra un dandy di provincia e una zitellina di buona famiglia, dotata di mille virtù, ma priva non dico di sex appeal, almeno di qualche attrattiva. La buona signora Ines, dalla camminata anserina per via dei piedi piatti che la facevano caracollare in maniera buffa, il capo sguarnito di capelli, le labbra a forma di ferita, come quelle di un salvadanaio, non perdeva una messa quotidiana o un rosario serale, faceva letture edificanti, ma piaceva meno di niente al capriccioso consorte.
Ornella, più colta della madre e bruttina quanto lei, anche se di una bruttezza – come dire? – meno espansa, vista la sua modesta mole e statura, non aveva avuto pretendenti, né negli anni liceali, né in quelli universitari e – a vero dire – raramente il suo cuore aveva palpitato per qualche ragazzo.
Ecco perché, in quei giorni, stava meravigliando se stessa per l’interesse che andava provando per un bruno dirimpettaio. Proprio di fronte a casa sua c’era una rivendita di radio con tre commessi abili anche nel ripararle. Ancora non si parlava di TV e i cd erano merce lontana nel tempo. Eravamo prima degli anni Cinquanta, in un momento postbellico di ripresa della nostra nazione.
Alfredo, si chiamava il ragazzo, ventiduenne, quindi piuttosto giovane rispetto ad Ornella , oltretutto di condizione economica più disagiata, dotato solo di maggior avvenenza.
Bastarono due o tre passeggiate lungo il Po di Volano, così suggestivo all’ora del tramonto, macchiato di porpora e oro, bastò l’offerta di un gelato e, quindi, un bacio, breve, dato senza convinzione, ad accendere il sangue della ingrigita ragazza.
Il padre, alla richiesta di fidanzamento, da parte di Alfredo, dimostrò diffidente condiscendenza. La madre, fu più cordiale e benevola, tanto temeva, alla sua morte – come spesso andava ripetendo – di dover lasciare Ornella sola.
La giovane, esultante, si montò la testa con sogni di grandezza. Bisognava organizzare una festa di fidanzamento. E fummo coinvolte la cuginetta Bice ed io, dodicenni spensierate e molto birichine.
La neo fidanzata fece lucidare il pianoforte a coda, riprese in mano gli spartiti, abbandonati da tempo. Strimpellò per una settimana musiche romantiche e – a suo avviso – adeguate. Non contenta della cuoca di casa, si rivolse a un pasticciere rinomato perché confezionasse bigné e dolcetti a sorpresa, per il gran giorno.
Cucì abitini di carta crespata che avremmo dovuto indossare per un balletto di fantasia, quasi lolite-odalische a impreziosire l’evento.
Alfredo, nella domenica dei festeggiamenti, se ne stava seduto quasi fosse sulla seggiola del dentista; i suoi genitori, due campagnoli imbarazzatissimi, non proferivano verbo. Ornella pigiava sui tasti del pianoforte, accennando anche qualche timido gorgheggio. La signora Ines e lo scettico consorte non battevano ciglio. «Che sian già morti?» – mi sussurrava l’impertinente Bice, già vestita di tutto punto nella fiammante carta crespata.
Quando la cameriera portò in tavola i vassoi, il dessert e il rinfresco, avevano l’aria ferita e desolata di un campo di battaglia, perché tra un volteggio e l’altro della danza, le nostre dita di monelle – passando nel salottino dove stazionavano i vassoi – ghermivano bocconi qua e là, scompigliando le composizioni, decapitando gli angioletti di pastafrolla, svuotando i bignè portati alla bocca con frenetici morsi.
Un po’ per questo, molto per lo scarso entusiasmo del futuro sposo, il fidanzamento andò presto a monte.
Eppure, per tutta la vita Ornella ci serbò rancore, persuasa che la colpa dell’insuccesso fosse da attribuire al nostro balletto.
«Non eravate aeree, non sembravate farfalle, non eravate sinuose, coinvolgenti, non andavate a tempo, sembravate ubriache…»
Ma, avevo dimenticato di dire che tra un volteggio e l’altro, Bice ed io, passando dallo stanzino dei rinfreschi, prima che fossero serviti, oltre ad ingozzarci a casaccio, c’eravamo scolate una bottiglia di limoncello. Che sia stato per questo? (g.g.)
Grazia Giordani
Data pubblicazione su Web: 18 Marzo 2009



 
Deliziosa storia minimalista
Amo da molti anni la scrittura minimalista di Anne Tyler, autrice prediletta di Nick Hornby, che col suo nuovo romanzo La bussola di Noè ci offre il conforto di una lettura piacevole condita da humour e umanità.