Archive for novembre 2003

Da indagini statistiche risulterebbe che viviamo in un’epoca in cui si tenta di “ringiovanire la vecchiaia”, anche perché la popolazione è più sana e longeva e quindi bisogna darsi da fare per togliere il buio agli anni della post-giovinezza, quelli temuti dai più. Voi cosa ne pensate?

Colfavoredellenebbie ha espresso la speranza che il racconto continui. Come si fa a dire di no a una gentile fanciulla? E allora eccomi qui ad accontentarla, ben consapevole dei rischi di cui mi parlava spesso mia madre, la mitica Hena, per cui «”le cose lunghe potrebbero diventare serpi…»”


Il ritorno di Ginevra




Sostò a lungo su quel monte, Manrico. Si trattenne in quel paradisiaco boschetto finché le ombre della sera non distesero il loro manto violetto sul volto di Ginevra, che ormai intravedeva a malapena, quasi fosse un’eterea epifania. Inutile sottolinervi che la volubile Signora, era uscita niovamente dagli angusti spazi del romanzo, risoluta a vivere.


“Si è fatta notte – mormorò lei in un sussurro – tra poco chiuderanno le porte dei giardini. Dobbiamo andarcene, se non vogliamo restare bloccati dentro”.


“Ti dispiacerebbe così tanto ?”


“Soffro il freddo della notte, preferisco l’atmosfera raccolta e rassicurante di una casa, anche se praticamente non sono certa di possederne una, a meno che non mi sia dato di vivere dentro quella del romanzo, in cui vivevo come Ginevra Valmarana : era un palazzetto liberty, con pareti gialle e avorio; a quell’epoca mi piaceva sostare nel solarium: è in quel luogo protetto dai vetri, illuminato da una luce densa, come quella che filtra dalle pareti d’alabastro del mausoleo ravennate di Galla Placidia, che ho scritto Signora a una piazza”.


“Basta con queste fantasticherie. Non mi piace saperti uscita dalle pagine di un libro, col tuo nome medievale, abitante di una casa che forse non è nemmeno tua, piena di ubbìe”.


“A te dispiace il pensiero che io non ami la fusione nell’uomo, l’annullamento per cui due diventa uno, come dice Zarathustra, anche se con lessico più alato e misterioso. Vorresti che io fossi una donna banale, sottomessa, complementare al maschio, ti dà noia la mia piazza interiore monoposto…”


“Mi dà noia soltanto constatare quanto il tuo sia un partito preso. Anch’io non tengo per niente a una con-fusione dei due esseri in uno, ma visto che tu non sei certa di avere un alloggio e io sono intristito dalla solitudine di una vita da scapolo, non capisco perché non potremmo cercare un alloggio che ci permettesse liberamente di farci compagnia, data soprattutto la magia di questo nuovo incontro che ci ha messi davanti al fatto compiuto dell’istintiva simpatia : abbiamo gli stessi sentimenti al punto che i nostri corpi hanno goduto assieme, si sono uniformati al cuore ; il latte della vita che portiamo dentro è sgorgato da noi, come un liquido velluto d’avorio. Non avere vergogna : questo è un evento dolcissimo al di là del bene e del male, un evento solo nostro di cui dobbiamo essere orgogliosamente gelosi”.


“Proviamo” – rispose laconica Ginevra, che era più secca e immediata del suo compagno, fortunosamente di nuovo incontrato, meno incline al filosofeggiare, anche se del tutto avulsa da moralismi.


***



Entrando nella stanza dell’abitazione dove alloggiava Manrico – che da tempo aveva lasciato la sua lussuosa dimora veneziana (la ricordate?) a causa di rovesci di fortuna – la donna rimase meravigliata dalla grande profusione di libri : le pareti erano quasi completamente ricoperte da volumi esposti con il dorso, dentro bacheche a vetri, semplici protezioni perché la polvere non li danneggiasse. Il mobilio era essenziale : un tavolo massiccio di legno scuro, un computer, un letto ampio coperto da un raso color rubino, damascato in tinte più sobrie, due poltroncine leggere, una credenza con dentro stoviglie bianche, fini.


In casa non si era portato nulla del fasto del suo negozio d’antiquario, come se qui volesse depurarsi da un eccesso di eleganza, preferendo l’essenzialità al lusso, all’ostentazione e – a dire il vero – anche perché gli affari gli erano andati maluccio, ultimamente.


“Teniamo entrambi alla nostra libertà e non vorremmo logorare un incontro così magico con la routine di un matrimonio – si affrettò a dire – io conosco le insidie della noia più di te, che dici di uscire dalle pagine di un libro”.


“Bene, smettiamola con questa storia del libro : è il mio paravento, quasi una persona, una maschera di comodo che mi separa dai guai del mondo, un’illusione a cui io stessa voglio credere, perché mi fa vivere meglio”.


***



Si spogliarono lentamente, non per pudore, ma piuttosto perché volevano assaporare nella sua pienezza questa prima volta della loro reciproca nudità.


Si sdraiò prima Ginevra e posò felice il capo su una federa di bucato, ornata da un fine orlo a giorno, immacolata. Manrico voleva che il letto del loro primo incontro non portasse tracce del suo passato di uomo solo.


Le molle cigolarono piano, complici di questa unione ; il tessuto fresco delle lenzuola li fece rabbrividire all’unisono, quasi il brivido fosse un respiro unico di nuovi amanti. Manrico la baciò a lungo sulla bocca, introducendo la lingua dolcemente, indugiando sui denti di lei e sul palato : una piccola schermaglia di lingue che si sovrapponevano per cedere poi l’una all’amorevole violenza dell’altra. Scese lungo il collo, sempre più giù, fino alla seta tenera del suo ventre.


Fu una notte d’amore ubriacante.


L’alba sporcava di rosa il cielo, macchiandolo dell’oro pallido del mattino e si insinuava nella camera attraverso le fessure delle imposte, creando un’atmosfera surreale, come se volesse collaborare alla loro favola. (g.g.)

Ripropongo questo mio lungo racconto – pubblicato una decina di anni fa – in Ventaglio Novanta e ne La repubblica veneta, a cui attualmente collaboro con servizi di cultura.


 


FRENESIA


 


 


Ginevra uscì dalle pagine del romanzo dentro cui l’autore l’aveva chiusa da troppi anni: quel libro ormai le andava stretto, le era venuto in uggia, quasi fosse un abito scolorito, una minestra sciapa o un viaggio in luoghi troppe volte visti. Aveva voglia di aria nuova, di inesplorati orizzonti, sognava oceani sconfinati, giardini di fiori tropicali, musiche andaluse; sognava soprattutto un’emozione inebriante; aveva nostalgia di lettere attese con ansia, di telefonate promesse, di voci rotte, appena sussurrate dentro la cornetta.


Ormai era ora di vivere un’esistenza nuova, sopra le righe, trasgressiva quanto basta per gratificarla senza coinvolgerla. Era stanca di vivere imprigionata dentro la carta patinata di quel libro – intitolato Signora a una piazza – quasi a sottolineare quanto lei fosse stata sempre compos sui,mai asservita al maschio, anche quando lo aveva accolto nel suo letto. Quel romanzo, di cui era la protagonista, aveva così spesso gasato i lettori, tanto allusivo da aver scaldato il sangue di chi sa raccogliere un messaggio di sensuali promesse.


Scavalcò i punti e le virgole con passo agile e chiuse una parentesi, caracollando un poco – mentre usciva languidamente dalla pagina – sui tacchi a spillo che mettevano in risalto le sue gambe ancora lisce, di cinquantenne ben portante, seducente per femminilità maliziosa, atta ad intrigare in maniera sottile.


La morte dei genitori – così almeno si poteva leggere nelle prime pagine del romanzo in cui finora aveva abitato -, le aveva lasciato una rendita sufficiente a farle vivere un’esistenza decorosa, senza sfarzo, ma piacevole: poteva ancora comperare abiti di buon taglio – continuava a preferire tailleurs sobri, in tinte neutre, ingentiliti da soffici camicette in seta che sottolineavano la curva dolce dei suoi seni; pochi gioielli di buona fattura ornavano il suo collo delicato, le mani senza anelli, portavano l’ornamento naturale di unghie curatissime.


Estrasse un pettine dalla borsetta e si ravviò nervosamente i capelli; dovrò trovare un buon parrucchiere – si disse – e riprendere una vita vera, di donna di carne che si lascia alle spalle la surreale figura di carta.


Decise di recarsi a Venezia per qualche giorno; aveva voglia di cambiare aria, di rompere la monotonia della sua vita badiese, fatta di passeggiate  solo sognate lungo l’Adigetto – all’ora del tramonto – quando il sole si tuffa, rutilante di porpora nell’acqua misteriosa e appena increspata da una brezza leggera. Aveva nostalgia di parole secche ed indispensabili che avrebbe potuto dire al giardiniere o alla cameriera, di letture sperate, di musica ascoltata con animo trepidante: anche trepidare era diventata un’abitudine qualcosa che aspettava da se stessa, quasi fosse un ineluttabile dovere.


Era stanca di questa esistenza surreale, quasi vivesse in un dipinto di Chagall. Ma può essere vita quella che leggiamo riguardo noi stessi? Non è dunque ora di cambiare, rompere con la routine, uscire dal consueto, fare qualche giocosa follia, ammesso che sia folle vivere sul serio?


Nel dire a se stessa questo, fu presa da una febbrile frenesia: una voglia folle di cominciare subito, senza porre tempo in mezzo.


Lanciò contro il muro Madame Bovary, giudicando male un’eroina che aveva tradito per noia, per mediocrità interiore, senza la scusante di un sentimento vero, si truccò con cura, come se lo facesse per un uomo, per qualcuno che l’attendeva: dipinse le labbra piano stemperando bene la pasta lucida del rossetto, profumò il retro degli orecchi ornati ai lobi da minuscoli orecchini, spruzzò un po’ di essenza fra i seni, come se il volto di un innamorato avesse dovuto appoggiarsi su quella carne di seta e odorarla.


Sono diventata matta – di disse – dov’é finita la prudente borghesissima, attenta Ginevra?


La frenesia le correva rapida dentro le vene, si mescolava al suo sangue caldo di voglie represse, di perbenismi tenuti a bada, di desideri negati a se stessa.


Sto entrando in un clima solipsistico, ma voglio uscirne, dare completeza a questa vita grigia  come un cielo ingabbiato, un cielo su cui il sole non ha mai scritto le luci dell’alba e la fiammata del tramonto, un cielo di zitella, un cielo di donna inutile.


 


***


Prese il treno al volo e si sedette ansante in uno scompartimento semivuoto. Aveva di fronte un sacerdote anziano che la guardò sospettoso, quasi Ginevra irradiasse desideri vitali sconvenienti, una ventata calda di pensieri inconfessati, da tenere a freno, o così almeno le parve, suggestionata dal nuovo indirizzo che stava dando alla sua vita.


Ad aiutarla a mettere la valigia pesante nel portabagagli fu un giovanotto smilzo e foruncoloso che non la fissava negli occhi, la guardava in tralice, tossicchiando, e Ginevra era lieta di metterlo in imbarazzo.


Venezia le apparve dentro un sudario di nebbia, un velo denso, ricamato di sagome di campanili, forato dalla corsa prudente dei vaporetti, avvolgente e subdolo, seducente come un enigma infinito.


***


 


Si svegliò con il sole, una luce rosata ottobrina, dolce come un pensiero di libertà, di vita nuova. Sedette in un piccolo ristorante lungo un rio, non troppo discosto dall’albergo vecchiotto, ma confortevole, in cui alloggiava. Aveva camminato a lungo, visitato una mostra del Tintoretto, sparsa fra alcune chiese, dove le opere erano da secoli collocate, aveva acquistato il biglietto per un concerto di Vivaldi – che conosceva quasi a memoria, ma non si era sentita di rompere proprio del tutto con le sue abitudini – aveva acquistato un animaletto di vetro di Murano da Venini, e adesso non sapeva dove mettere il pacchetto.


Ordinò un pranzo semplice, di una sola portata, niente vino.


Si chinò per odorare un mazzolino di fiori al centro della piccola tavola apparecchiata; risollevandosi, incrociò lo sguardo penetrante di un giovane dalla chioma “leonardesca”, svelto nella figura: nei suoi occhi vi era qualcosa di scanzonato, quasi una “citazione” del passato che avrebbe voluto avere, se non fosse vissuta dentro il chiuso della pagina.


“Posso sedere accanto a lei? – le chiese il giovane – detesto mangiare solo e adoro le donne affascinanti, allusive, dallo charme sofisticato”.


E – senza attendere risposta – accomodandosi, le versò da bere, come se fossero amici da sempre, come se quel posto accanto a lei gli spettasse di diritto. 


Quella notte Ginevra non dormì, si rigirò nel letto ora euforica perché la sua esistenza stava prendendo spontaneamente una piega diversa, perché si sentiva attratta in maniera sia fisica che cerebrale da quell’uomo dallo sguardo penetrante che l’indomani le avrebbe fatto visitare la sua Venezia “puttana”- proprio così aveva detto – facendole scorrere dentro un fremito di proibito, una voglia ubriacante di trasgressione, di emozioni violente, intellettuali ed erotiche ad un tempo.


Si chiamava Manrico – le disse – gestiva un negozio di antiquariato, interessato soprattutto all’arte barocca.


“Domani vedrai il mio negozio: voglio regalarti una piccola tela che ti somiglia; la donna ritratta ha il tuo stesso lievissimo strabismo e quelle deliziose fossette nelle guance”.


***


 


Lo rivide l’indomani davanti al Florian, dove il giovane le aveva dato appuntamento. Si salutarono  con lo spontaneo slancio di vecchi amici. Manrico la baciò su una guancia, la prese sottobraccio e la fece sedere in un tavolino all’aperto dello storico caffè.


I colombi volavano bassi, rincorrendo annoiati, senza una vera fame, chicchi di riso e grandi di miglio.


“Coinvolgiamo anche gli animali nel ‘troppo’ di tutto del nostro secolo” –  le disse il suo partner.


“Sei certamente un uomo di sinistra – non ostante il tuo status economico e sociale” –  azzardò Ginevra – meravigliata di provare interesse per un uomo non solo tanto più giovane di lei, ma anche di formazione politica agli antipodi, e glielo fece notare”.


“L’anagrafe non esiste, se due persone sono sinceramente interessate l’una all’altra – rispose galantemente l’antiquario – e se un uomo e una donna si sentono attratti, non credo che fra i gemiti d’amore, pensino a Berlinguer o a Mussolini…”


Ginevra rise, divertita.


Lo seguì attraverso tortuose callette, senza chiedergli dove la portasse, piacevolmente abbandonata al flusso di uno spontaneo e trascinante languore.


Le piaceva il mistero di quel fortuito incontro che le creava l’illusione di vivere una situazione irreale, pur essendo uscita dal suo romanzo.


Salirono su per una scala stretta dagli scalini sbrecciati. Entrarono in un ingresso arredato in stile severo, con mobili scuri che le ispirarono soggezione. Con grande sorpresa, il salotto le apparve in stile opposto, ultramoderno: mobili essenziali di grande firma, in contrasto con i quadri d’epoca alle pareti.


“Sembri un uomo contraddittorio, alterni il fascino dell’antico alla provocazione del moderno: elementi tradizionali e ‘futuribili’ cantano dentro lo stesso coro di eleganza, pur mantenendo distine le loro voci. Ti sei rivolto ad un architetto?”.


“Sono io l’architetto di me stesso”.


Manrico la baciò improvvisamente sulla bocca, senza preamboli, senza tastare prima terreno. sapeva che Ginevra avrebbe corrisposto a quel bacio travolgente, in cui le loro lingue si annodarono e sciolsero dentro la bocca – divenuta una sola – con ansito fremente, con voglia “carnivora” quasi di risucchiarsi l’anima.


***


 


Dormì un sonno profondo, quasi una piccola morte. Il suo primo pensiero fu quello di telefonare a Manrico; era ansiosa di rivederlo, avrebbe voluto riprendere il discorso da quel bacio di fuoco: la frase fermatasi lì era interrotta. Era certa che altri aggettivi ed avverbi, per non parlare dei segni di interpunzione, l’attendevano ancora.


Sono sicura che con il mio giovane antiquario vivrò momenti indimenticabili – si disse – ed ebbe un attimo di crudeltà contro se stessa.


Che sia interessato a me, proprio perché è un cultore delle cose antiche?


A farle riprendere coraggio le ritornarono alla mente le frasi galanti del giovanotto, a proposito dell’amore “che non avrebbe età”.


Eppure era inquieta, aveva paura di vivere, paura di soffrire.


 


***


 


Si rividero in casa di Manrico. Dopo i bei discorsi dell’inizio,  il giovane antiquario sembrava pentito della piega che andava prendendo questo flirt controcorrente.


Siamo scanonati – si disse – come il nostro Palazzo Ducale, traforato alla base e compatto nella parte superiore. Eppure il palazzo è splendido, un capolavoro unico.


Che me ne verrà da una relazione così edipica?


Cosa me ne faccio di una donna vissuta in un romazo, che riduce tutto a letteratura? Che ha la puzza sotto il naso?


Decise di partire per un lungo viaggio. Lasciò Venezia senza salutarla, senza una parola di spiegazione.


In aereo lesse le notizie del giorno. Era svogliato. Si impediva di pensare e di pensarla. Sbirciò le gambe della hostess che , premurosa, gli offriva da bere; guardò il tramonto insanguinato fuori dal finestrino, percorso da un brivido improvviso che lo scosse in maniera sinistra.


 


***


 


Durante il viaggio e la permanenza nel New England – dove aveva un amico docente universitario -, non poteva dire di essersi divertito alla follia. Aveva girovagato, mangiato cibi nuovi, acquistato cose inutili, fatto l’amore con donne raccogliticce e poco coinvolte che nulla avevano del fuoco spontaneo di quella “romanzesca” Ginevra.


Pensò di combattere l’insonnia acquistando un nuovo libro da leggere.


Cercò un negozio in cui vendessero pubblicazioni in italiano, o almeno in francese. Proprio nella lingua di Flaubert e del suo amato Baudelaire, dopo una non troppo laboriosa ricerca, vide il libro da cui era uscita la sua matura amante, quella della brevissima relazione.


Con sgomento si accorse che Ginevra era rientrata dentro la pagina. Si era incastrata dentro le righe, quasi stritolata fra un punto interrogativo e due virgolette troppo ravvicinate: sul candore del foglio brillava una fosca rosa di sangue. (g.g.)


 


 


 


 


 

Sabato 8 novembre 2003 – alle ore 15,30 avrà luogo a Villa Castellani di Sermide l’inaugurazione dell’Anno Accademico 2003-2004 e sarò io a presentare La fabbrica della fantasia di Gianfranco Maretti Tregiardini, poeta “fantasticante, cultore di pedagogia, latinità e giardineria”. Se avete occasione di passare da quelle parti, venitemi a salutare.

(Costume)


Sedotti dalla filosofia


In questo nostro mondo inquieto, flagellato da guerre, odi di religione, intolleranze di ogni tipo (con minaccia di traslocare Crocifissi), squilibri sociali e molti altri guai ancora, per non parlare di droga, delitti di famiglia, delinquenza di ogni tipo, disoccupazione, e fermandoci qui per non rattristare chi ci legge; in questo mondo – dicevamo – la filosofia sta diventando quasi una panacea, la speranza di un rimedio, una maniglia a cui aggrapparsi.


Prova ne sia che, ad ogni richiamo anche il meno appetibile in apparenza, il pubblico accorre entusiasta, e questo non solo da parte degli abitanti delle grandi città, anche il Polesine sembra essere sensibile a questo richiamo, a quanto si deduce dalle conversazioni della gente da cui si apprende l’interesse provato per il Festivalfilosofia di Modena. «C’è un pubblico affamato di cultura letteraria – afferma in proposito il filosofo Remo Bodei – di cultura filosofica non trasmessa in pillole. Il che dimostra, da una parte, che il fast food intellettuale ha saturato il cervello, dall’altro che le chiese intese in senso religioso, politico, ideologico non offrono più certezze granitiche sul senso della vita e del mondo».


Sembra dunque che, nell’incontro con gli autori (vedasi anche il festival letterario di Mantova), oltre al piacere dello stare insieme, si racchiuda l’intento di far circolare le idee, in linea con Platone, per cui i Maestri avrebbero emanato delle scintille, in modo che ognuno possa poi illuminarsi di luce propria.


Ci appare quindi rilevante questo bisogno di aggregarsi, di scambiare opinioni, di impegnare la mente in temi forti, in un momento storico – come dicevamo più sopra – tanto tormentato.


Lo storico Franco Cardini – intervenendo su questo tema – sottolinea come. «Anche solo il fatto che si senta il bisogno di aggregarsi, in nome di un evento culturale, è rilevante. Non tutti vanno allo stadio per consumare la solita guerriglia urbana. E bisognerebbe che i mezzi mediatici, che vivono nell’idolatria dell’audience, ne prendessero atto. (…) La vita si allunga e la società cambia rapidamente. Un settantenne di oggi ha la sensazione di essere passato dall’800 al XXI secolo inoltrato e ciò comporta dei traumi mentali molto forti che aumentano le domande sui grandi temi».


Peri il poeta Edoardo Sanguineti, viviamo addirittura in un momento di «fame di cultura» per le ragioni più sopra esposte, ma anche perché «il desiderio di conoscenza e il piacere della cultura oggi valicano i confini tradizionali e raggiungono livelli che di solito sono tipici dello spettacolo, dello sport o della musica. Si sente un bisogno collettivo di punti di riferimento».


Dunque, il crollo delle ideologie, di cui si è sentito tanto parlare, parrebbe essere smentito da più parti dall’esigenza di pensare e ricostruire prospettive ideologiche.


Che ci sia caso che ci stiamo avviando a un superamento della dialettica da talk show, in cui spesso si dialoga sul nulla, con un desiderio di parola ex cathedra, ma comprensibile anche dall’uomo della strada?


Che anche la scuola – quella tradizionale – sia incitata a svecchiarsi di conseguenza, afferrando al volo l’opportunità di dare continuità a questa nuova cultura?


Concedeteci, a questo ultimo proposito, qualche umano dubbio.


(g.g.)





TAVOLO DA BRIDGE


Si riunivano da ormai quasi trent’anni attorno a quel tavolo scuro. Sorretto da gambe massicce, vestito di un panno verde, ai bordi scolorito: un vestito senza mode e senza tempo, testimone muto delle loro lente smazzate. Un tavolo per quattro, a volte compiacente e un po’ sornione. Mentre le mani disponevano picche e fiori in meditate combinazioni, i piedi dei giocatori avevano – soprattutto in passato – lavorato sotto ambigui e tentatori.
I piedi di Clara erano lunghi e sottili, calzati spesso da mocassini morbidi, facili da sfilare, estremità di una donna irrequieta, la voce roca per il troppo tabacco, l’abbigliamento casual, quasi maschile, i calzoni di buon taglio, bluse molto aperte a mostrare l’inizio di seni piccoli ed eretti.
Claudio, il marito, era un uomo taciturno, grande calcolatore nel gioco, considerato la “mente”, il mago della licitazione, che sapeva spaziare con intelligenza nel misterioso giardino dei fiori “Romano”, “Napoletano” e forse anche di “Timbuctù”…. Così almeno commentava Clara, gelosa della razionalità inesorabile del consorte, in conflitto con la sua ironica fantasia.
Nel gioco preferivano dividere le coppie. Marta, meno irrequieta, più remissiva dell’amica, subiva con classe le ire di Claudio e, al tavolo verde, ne diventava l’altra metà. Una metà in sottordine, come la spalla per il comico, la sguattera per il cuoco.
Alain, il marsigliese della compagnia, era il più enigmatico dei quattro. La sua condotta di gioco appariva irregolare, ora piena di slanci e di concessioni alla creatività, ora ingrigita dai trent’anni di appuntamenti.
In passato era parso che Marta e Alain – i due single per elezione – nutrissero una reciproca viva simpatia. C’era stato qualche viaggio con pernottamento in piccole stanze di alberghi altoatesini, riscaldate d’inverno da caminetti divorati dal divampare delle fiamme. E poi un week-end a Parigi, presi dalla “grandeur” della città, nutriti in piccoli ristoranti di Montmartre, come turisti qualsiasi, senza pretese di distinzione. Liberi, disinibiti, avevano goduto di questo flash d’amore fisico che non li aveva vincolati a niente: né a reciproca fedeltà, né a sentimenti profondi. Di quelli che parlano il linguaggio del “ti amerò per tutta la vita”.
Poi Alain si innamorò veramente di Clara. Se ne accorse una sera, quando osservando il volto dell’amica riflesso nello specchio, provò quasi una fitta dolorosa, una voglia di averla tutta per sé, di toccare le sue carni color miele, di perdersi dentro quella scollatura sempre offerta. Si chinò fingendo di raccogliere una carta da gioco e sfiorò con le dita la sporgenza del suo ginocchio. La gamba di Clara “rispose”, accostandosi alla sua mano con abbandono. Fu un linguaggio istantaneo, una “licitazione” cui non seppero sottrarsi, piena di antiche malie. Claudio non diede segno di capire, chiuso in una specie di impermeabile di indifferenza, sembrava interessato alle “donne di cuori”, piuttosto che alla sua legittima compagna. Da tempo la teneva lontana nel grande letto matrimoniale, preferendo la lettura di manuali di bridge alle effusioni della consorte. Non notava le maliziose combinazioni di pizzo nero che svelavano più che velare i tenui boccioli del suo seno e le cosce efebiche di donna che invecchierà tardi. Le carte non le bastavano. Nella vita aveva altri interessi: slanci sociali, cinema d’avanguardia, pittura, fumetti di Linus. Adorava le patatine fritte a mezzanotte, le sorprese, i viaggi senza meta, gli imprevisti di tutti i tipi.
Alain la travolse. Fu all’epoca di questa passione che i loro piedi presero a “parlare” sotto il tavolo, inverecondi più che mai. Fu tutto uno sfilarsi di mocassini, di alluci strisciati lungo le gambe dell’uno o il ventre dell’altra, mentre le mani continuavano a regolare la danza delle carte, colpevoli ed imprecise, animate da una gioia trasgressiva, sempre più eccitante.
Gli incontri nella piccola garçonnière di Alain forse non erano così appaganti come lo scambio di effusioni del sottotavolo. I corpi, nella stanza del marsigliese – svelati dalle inutili lenzuola nei lunghi pomeriggi -, erano affamati, quasi crudeli nello scambiarsi ardore, ma non raggiungevano mai la soddisfazione allusiva delle sere al tavolo verde.
Marta soffriva per l’orgoglio ferito. Si sentiva tradita più dall’amica che dall’amante. Era divisa tra due atteggiamenti opposti. Da un lato cercava di inventare scuse per rimandare gli appuntamenti al bridge: senza la sua presenza, l’incantamento si sarebbe rotto, la love-story avrebbe avuto degli impedimenti. D’altro canto si comportava come l’assassino che torna su luogo del delitto: non riusciva a svincolarsi del tutto dall’appuntamento col tavolo galeotto, masochista ed impietosa contro se stessa.
Come tutte le passioni, anche questa si spense e divenne una sbiadita amicizia. Clara entrò in una fase di vita sedentaria. Forse divenne più riflessiva, meno sognatrice, ma anche meno appagata e capace di dare sprint a chi le viveva al fianco.
Marta aveva avuto un’altra storia breve e poco gratificante con un greco, incontrato occasionalmente a teatro, e che aveva tentato – in parte riuscendoci – di estorcerle del denaro. Alain era chiuso in un riserbo sempre più impenetrabile, della sua vita privata non si sapeva ormai più niente. Claudio continuò nella sua abulia di bridgista a tempo pieno, posato ,metodico nel fare tutto al tempo giusto e con la debita pignoleria, come piegare il tovagliolo prima di alzarsi da tavola o spremere il tubetto del dentifricio dal basso, senza sprechi inutili.
I quattro bridgisti – dopo un lungo intervallo – si riunirono in una serata invernale piena di vento. Folate fredde si insinuavano nella stanza attraverso le fessure della finestra. La camera era in penombra. Alain accese una lampada dal lungo stelo che proiettò una luce innaturale sulla smazzata chiara nel verde del tappeto, quasi una croce copta stilizzata, parte di un rituale troppe volte ripetuto. Sembrava un disegno di morte, di fine di amori ad incastro, d’inizi di pallide amicizie senza calore. Il gioco non aveva più senso fra loro, privo dei sottintesi del passato; si svolgeva ormai solo sul tavolo senza i risvolti furtivi, non nascondeva più le ombre delle loro vite, non era proiezione di manovre del sottosuolo. Che senso avrebbe avuto continuare? Claudio pensò: “Cercherò altri partner più vivi. Con loro è diventata una noia misurarsi. Clara, Alain e Marta sono ormai dei giocatori fantasma, molluschi senza supporto interiore, mutilati dalla fine dei loro “giochini”. Povera gente scialba, dagli ideali sbiaditi! È giunto il momento di scaricarli, come zavorra da gettare a mare”.(g.g.)



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Solitudini



«Sempre, senza eccezioni, quando vedo comparire in Outlook il suo indirizzo elettronico ho un balzo al cuore, e mi do della stupida da sola per l’emozione che provo nel leggerlo – questo si disse Ginevra – aprendo il suo nuovo allegato con il racconto a quattro mani».


Perché questa matura signora, apparentemente una tranquilla borghese, scrittrice di provincia senza grilli, era entrata nella “strana relazione labirintica” – come la definiva il suo corrispondente telematico – consapevole di non piacergli nemmeno troppo, “lontana anni luce dalle donne che piacciono a lui”?


L’irrazionale non ha confini.


Era il fascino del mistero?


Dell’inafferrabile?


Del non udibile e non visibile?


Questo milanese le riportava al cuore ricordi di giovinezza.


Quindicenne, durante le vacanze estive, aveva conosciuto al mare Aurelio, uno splendore di ragazzo, di pochi anni più grande di lei.


Aveva una bella bocca un po’ vorace, forse a causa del candore perlato dei denti che brillavano nei suoi rapidi e rari sorrisi. Vicini d’ombrellone, si parlarono con naturalezza. Mattino dopo l’altro, continuarono a vedersi. Lente passeggiate sul bagnasciuga guardando tutto e niente, sotto l’occhio vigile della madre che le concedeva limitati spazi di libertà. Rapide nuotate in un mare avvolgente e, allora, trasparente e pulito. Una sera andarono in gruppo al Luna Park. Aurelio acquistò per lei una manciata di mandorle glassate. Ginevra le chiuse nella mano a pugno, felice di questo suo primo dono d’amore. All’improvviso le prese la mano, quella con le mandorle. Fu il suo primo gesto “carnale”, dopo giorni di convivenza sulla spiaggia.


«Tecum vivere amem, tecum obeam liben» – scrisse per lei sulla sabbia, questo suo primo giovane innamorato, il giorno che si salutarono.


Era finita l’estate.


Che fosse solo la “milanesità” dei due – l’uomo di adesso e il ragazzo di allora – ad affiancarli nel suo immaginario, in un bizzoso sovrapporsi di “fotogrammi” del cuore?


Così diversi nell’aspetto estetico: un’adolescente, bruna bellezza il primo; una figura esile il secondo, occhi di mare dal malinconico disincanto.


No. Era il cervello che li accomunava.


La nostra signora era sedotta dall’intelligenza, dall’originalità di pensiero.


E, se fosse stato in suo potere, avrebbe fatto l’impossibile per guarire Silvano dal suo sconforto, dal suo ingiustificato senso di sconfitta, da quel suo allinearsi con i misconosciuti, i perdenti, i vinti!


Oddio, come avrebbe voluto accoglierlo veramente nel chiuso del suo salotto e abbeverarsi alla sua cultura controcorrente, lontana dagli stereotipi, sentire qualche brano di romanzo letto dalla sua voce!


Come sarà la sua voce?


Profonda?


Con note di raucedine?


E la sua pronuncia?


Con le e larghe dei lombardi?


Non lo saprò mai si disse.


Posso solo immaginarlo.


Sognarlo.


Felice di regalargli un divertissement.


Nulla più.


Eppure, eppure anche lui, l’ironico “aspirante al traguardo dello zero assoluto” spero cominci a capire che da questo nostro raccontarci, da questo aprire anima e sensi l’uno all’altra, può scaturirne del reciproco bene: un’autoanalisi, no, un’analisi a due, un tandem di perlustrazioni dentro i meandri dell’anima, un aiuto a sopportare l’ovvietà, il banale e quel baratro di solitudine dentro cui, spesso, temiamo di precipitare.


Ginevra era capace di dare tenerezza.


Sentimento a cui Silvano non era avvezzo


Forse qui stava la chiave.


Ma era presto.


Non era ancora maturo il tempo perché lui potesse capirlo. (g.g.)

«Quando si scrive delle donne bisogna intingere la penna nell’arcobaleno»


(Denis Diderot, scrittore e filosofo, 1713-1784)

Visite tristi


Certo, il giorno dedicato al tour dei cimiteri si sa bene che non può essere lieto, ma oggi è stato triste in maniera speciale. Forse la pioggia insistente, frammezzata da brevissimi lampi di un sole offensivo; forse la consapevolezza del ruit ora; soprattutto la nostalgia di care voci: quella ironica, insaporita dal tabacco di Hena, mia madre, quella briosa – così io l’immagino – di mio padre, l’artista che non ho conosciuto (avevo un anno quando è morto); quella affettuosa di mio padrigno, che mi ha fatto da padre con tenerezza; quella dolcissima della nonna …


Abbiamo deposto fiori nei vari cimiteri – da quelli cittadini a quelli campagnoli – accompagnati, in auto, dal sottofondo musicale trasmesso da Radio 3; gli occhi persi dentro la misteriosa vegetazione del lungo Canalbianco e poi del Po di Volano, rivedendo panorami noti, case in cui ho abitato, cortili in cui ho giocato, magici flash vallivi, squarci di una Bologna mai dimenticata.


Verso il mare, ingorde gazze, scendendo da un cielo tragico, marezzato d’inchiostro e piombo, si cibavano sull’asfalto, straziando carcasse di gatti, travolti da camion e auto. Non sapevo che avessero abitudini simili a quelle dei corvi.


Si vede che i corvi sono ovunque, veri e metaforici.


Ora la tensione si allenta.


Ma continua a piovere.


E l’aria è satura di elettricità.

Pioggia battente, malinconia.