lA NAVE DEI VINTI

  • Lunedì 10 Giugno 2019

    IL LIBRO. Il romanzo di Leonardo Gori

    La guerra civile spagnola «riletta» attraverso il noir

    «La nave dei vinti» è al centro delle indagini del capitano Arcieri

    Grazia Giordani

    Da quando seguiamo le avventure del capitano Arcieri, uscito dalla bella penna di Leonardo Gori, ci siamo affezionati a questo personaggio burbero e pieno di cuore.

    E «La nave dei vinti» (TEA, pp.334, euro 14) navigando dentro i tortuosi meandri della guerra civile spagnola, folta di intrighi, ci regala un impeccabile noir di ampio respiro, racchiuso dentro un racconto emozionante che riscopre una pagina di storia colpevolmente o a bella posta dimenticata.

    Siamo nel mese di marzo 1939. Un piroscafo in avaria col suo dolente carico di profughi della guerra civile spagnola, attracca al porto di Genova. A bordo, uomini, donne e bambini e nella stiva un cadavere non identificato. Il compito di appurare se possano esservi spie imboscate sulla nave, viene affidato a Bruno Arcieri, capitano dei Carabinieri in servizio a Roma, da poco agente del SIM.

    Ma la sua missione si fa più complessa quando Arcieri viene a conoscenza di dover collaborare con un emissario del Vaticano a cui è affidato il compito di scoprire se a bordo si trova un misterioso agente segreto in possesso di documenti di vitale importanza per l’immediato futuro.

    Mentre Elena Contini, la donna amata da Arcieri si trova a Firenze, alle prese con le conseguenze delle leggi razziali, il giovane capitano inizia a interrogare i passeggeri, nel tentativo di scoprire l’identità del misterioso agente.

    Le cose si complicano ulteriormente, addirittura precipitano e, tra agguati e spie, profughi che temono di essere rimpatriati, agenti che si prodigano nel doppio gioco e inseguimenti notturni, l’operazione si fa sempre più tortuosa e complessa del previsto.

    Indagando con estrema cura, addirittura puntando i riflettori sui mesi che precedettero lo scoppio della guerra, in questo suo nuovo romanzo, Leonardo Gori ha, fra l’altro, il pregio di saper rievocare in maniera emozionante, l’atmosfera ricca d’angoscia che incombeva sul mondo e affida il racconto dettagliato della vicenda, oltre trent’anni dopo, a un Bruno Arcieri segnato dagli anni e dalla disillusione. Un  personaggio provato. Un uomo perseguitato dal desiderio pressante, dall’esigenza di spiegare, forse anzitutto a se stesso, il vero significato di quegli eventi drammatici, capaci di dare una svolta alla sua storia di uomo e alla sua visione della vita.

    Leonardo Gori vive a Firenze. È autore del ciclo dei romanzi di Bruno Arcieri: prima capitano dei Carabinieri nell’Italia degli anni Trenta, poi ufficiale dei Servizi segreti nella seconda guerra mondiale e, infine, inquieto senior citizen negli anni Sessanta del Novecento. Il primo romanzo della serie è «Nero di maggio», ambientato a Firenze nel ’38, cui sono seguiti «L’angelo del fango» ( Premio Scerbanenco 2005), «Musica nera», «Lo specchio nero», «Il fiore d’oro» (questi ultimi due scritti con Franco Cardini), «Il ritorno del colonnello Arcieri», «Non è tempo di morire» e  «L’ultima scelta».

    Inoltre, è autore di fortunati thriller storici e co-autore di importanti saggi sul fumetto e forme espressive correlate (illustrazione, cinema, disegno animato).

IL MACELLAIO

IL LIBRO. Adelphi pubblica Sandor Marai

La reale natura della guerra? Normale crudeltà

«Il macellaio» racconta il clima che portò al primo conflitto mondiale

 

Grazia Giordani

 

Il capolavoro di Sandor Marai (1900-1989) sarà considerato per sempre «LeBraci», tanto che Giulio Nascimbeni, uno dei migliori critici letterari del Corriere della Sera, che non è più fra noi, formatosi nelle pagine dell’Arena, usava dire, per eccesso, che chi ha letto questo romanzo, potrebbe astenersi dal leggere qualsiasi altra cosa.

Comunque, Marai, vissuto fino a quasi novant’anni, è stato molto prolifico come scrittore, quasi perseguitato, nella sua folta produzione, dal tema del destino e dalle sue traiettorie modificate dalle azioni eclatanti o impercettibili di uomini e donne. Questo persistente assunto  lo troviamo in particolate ne «L’isola», ne «L’eredità di Eszster» del 1939 e ne «La donna giusta» del 1941.

«Il macellaio» di cui stiamo trattando ora (Adelphi, pp.98, euro 10, nella bella traduzione di Laura Sgarioto), presenta per così dire una variante, rispetto le opere precedenti, cui abbiamo accennato, qui il destino sembra restare indipendente, avulso dalle azioni umane, e non appare nemmeno un ingombrante intruso che scombini e condizioni l’agire dei protagonisti. Qui è la forza prorompente e incontenibile della natura che agisce. Come una tara ereditaria, è un’agghiacciante esempio di abiezione spontanea, naturale e ragionevole: uccidere animali in un mattatoio o soldati nemici in guerra non fa una grande differenza per Otto Schwarz, il protagonista.

Nell’ottica dell’Autore, continua ad essere la guerra lo stolido e pericoloso palcoscenico della follia delle nazioni che, inconsideratamente, vi aderiscono.

Se sotto «Le Braci» si sottendevano la Prima e la Seconda guerra mondiale, nel «Macellaio» uccidere in guerra diventa qualcosa di inevitabile come una naturale vocazione, come un elemento che portiamo nel nostro DNA cui non possiamo sottrarci.

Le aspre pagine dell’incipit che ci narrano sotto quali infausti presagi viene concepito Otto, figlio di un sellaio di una cittadina del margravio del Brandeburgo, negli ultimi anni dell’Ottocento («Nacque di dieci mesi e con i denti. Il parto costò la vita alla madre») ci fanno subito capire – come rileva acutamente anche Laura Sgarioto, traduttrice dell’aspro romanzo – che l’animo brutale del personaggio anticipa la figura di Moosbrugger, il memorabile criminale de «L’uomo senza qualità» di Musil.

Marai ha saputo concentrare in un personaggio l’incontenibile sommovimento psichico che condusse alla prima guerra mondiale e devastò gli anni successivi. Ma racconta tutto questo con la pacatezza, con lo scrupolo e la concisione di un cronista, come qualcosa che appartiene a una nuova, terrificante normalità.

Otto, un giorno, vede un macellaio all’opera «la  scure scintillava al sole, come gli occhi della mucca, che egli scrutò da vicino e sulla cui cornea si rifletteva placidamente la rimessa, la taverna, i carri e la sua stessa immagine. L’istante in cui vide balenare la scure e subito dopo l’animale stramazzare a terra, s’impresse in lui come il ricordo di una sorta di gioia trionfale».

Marai ci conduce abilmente per mano verso l’epilogo del parossismo della crudeltà, con la consueta magistrale prosa intelligente e pacata, tipica del grande auto

 

LA RAGAZZA SCOMPARSA

Sabato 13 Aprile 2019

IL LIBRO. «La ragazza scomparsa», Adelphi

Le donne infelici animano l’horror di Shirley Jackson

«L’incubo» è il vero capolavoro dei tre racconti di questa raccolta

Grazia Giordani

Correrete un certo rischio, leggendo «La ragazza scomparsa» di Shirley Jackson (Adelphi, pp.78, euro 7, traduzione di Simona Vinci), un doppio rischio, anzi, ovvero quello di comportarvi come Madame Strauss che, ricevendo in anteprima da Proust i capitoli de La «Recherche», si riprometteva di leggerne poche righe alla volta, ma poi non resisteva. In questo caso le pagine sono poche, si leggono in un lampo. Il secondo rischio è quello che vi mettiate a cercare affannosamente l’opera omnia di questa straordinaria autrice nata a San Francisco nel 1916 e morta a North Bennington, nel Vermont nel 1965. I vent’anni trascorsi nella comunità del villaggio, dove era approdata al seguito del marito professore, le ispirarono «La lotteria» e «Abbiamo sempre vissuto nel castello», entrambi per Adelphi.

Dei tre racconti presenti nella breve raccolta «La ragazza scomparsa» di cui stiamo ora trattando, i primi due sono apparsi per la prima volta in rivista negli anni Cinquanta, mentre «Incubo» è stato pubblicato postumo nel 1996.

Perché tanto fascino nella scrittura di questa Autrice da pochi anni rivalutata anche in Europa?  Perché l’horror che sa creare è dirompente, una volta iniziato a leggerla siamo trascinati dentro una girandola, quasi una trappola circolare, espressa in prosa maiuscola e di assoluta forza. La ragazza scomparsa, tanto per rovinarvi la sorpresa, non è scomparsa affatto, ma tutti la cercano in maniera parossistica, offrendo attenzione a prove che confinano e si congiungono con dei nonsense.

Maestra dell’inquietudine la Jackson conferma quanto ha sostenuto M. Cunningham, ovvero che la letteratura rispecchia la vita. In effetti, l’Autrice sembra non aver mai avuto un momento di felicità. Rifiutata dalla madre e stretta nelle convenzioni degli anni Cinquanta, soffrì di depressione e crisi d’ansia e nei suoi libri espresse una feroce critica della società del periodo e del ruolo che riservava alle donne, mettendo spesso al centro dei suoi romanzi e dei suoi racconti figure materne negative e donne infelici.

Dal matrimonio non riuscito col critico Stanley Edgar Hyman le nacquero quattro figli e restò per quattro lunghi anni chiusa in casa.

«L’incubo» è il capolavoro della triade di cui stiamo trattando. Ci sono premi fiabeschi – racconta l’Autrice –  per chi saprà trovare una certa Miss X, che, spaventatissima, accortasi di esser lei la protagonista della ricerca, fa mille cambiamenti del proprio abbigliamento. Cambia cappello, acquista una cappelliera per nasconderlo, ma la voce stentorea dell’annunciatore dei favolosi premi legati a Miss X, sottolinea in maniera parossistica tutti i suoi mutamenti.

L’angoscia sale come un torrente in piena. L’incubo si srotola, attorciglia anche attorno ai nostri pensieri, quasi credessimo di esser diventati a nostra volta la  perseguitata/persecutoria e fantomatica Miss X.

La Jackson è stata paragonata a Poe a Lovecraft e a tanti altri scrittori dell’horror, ma rispetto a costoro, seppure grandissimi nel genere, l’infelice autrice aggiunge la caratteristica, soprattutto nei tre racconti di questa silloge in miniatura, di regalarci

« il brivido di scoprire che l’orrore di cui leggi sta capitando proprio “a te”».

Rai 3 Fahrenheit, in occasione della Festa della Donna, le ha dedicata un’intera trasmissione. Peccato essere osannate post mortem. Comunque, meglio tardi che mai.

Grazia Giordani

 

 

LA SCIA NERA

Lunedì 01 Aprile 2019

IL LIBRO. Una silloge a cura di Marco Vichi

Trenta riflessioni sulla violenza contro le donne

I racconti di scrittori famosi e meno noti parlano tutti della «Scia nera»

Grazia Giordani

Esce per i tipi di TEA una silloge di racconti di grande attualità, «La scia nera», a cura di Marco Vichi (pp.272, euro 15). Lo scottante tema è la violenza sulle donne. Vichi, in questo sociale intento ha subito richiesto collaborazione agli amici scrittori, che hanno aderito tutti con grande convinzione, come del resto si aspettava, non trascurando gli esordienti nella scelta, affinché l’ensemble fosse più completo, compatto e soddisfacente nella risposta.

La sensibilità verso questo argomento è molto forte, anche perché purtroppo sembra un incubo senza fine: l’8 marzo due donne uccise. Non dobbiamo porre attenzione solo ai delitti cruenti. C’è anche una violenza subliminale, criptata astutamente che salta meno in evidenza agli occhi. Vichi si riferisce anche alla prigionia mentale da cui nasce annullamento della personalità e quindi dell’autostima. Non vediamo segni tangibili in questo secondo tipo di violenza, ma lavora nell’ombra provocando irreversibili danni.

L’Autore si propone dunque di toccare il “punctum dolens” in tutte le sue forme ed accezioni. I proventi della pubblicazione saranno offerti in beneficenza all’Associazione Artemisia, centro specializzato nel contrasto ad ogni forma di violenza su donne e minori. Avremo così l’opportunità di leggere i racconti di trenta scrittori italiani, coadiuvati da due illustratori: Sergio Staino e Giancarlo Caligaris,  impegnati nella stessa volontà di uscire da questo tenebroso momento.

«Questa antologia – afferma Vichi – spazia tra diverse epoche, raccontando vari aspetti della violenza contro le donne, da quella fisica a quella psicologica, da quella verbale a quella culturale ed è bello vedere impegnati nella stessa avventura grossi nomi della letteratura italiana e giovani esordienti» La silloge si apre con «Martedì torno presto» di Valerio Aiolli, scritto con un ritmica ripetitiva che ci fa subito entrare in un blues cruento, per fortuna, di felice soluzione. Anche se felice non sarebbe l’aggettivo più adatto quando si è schivata per miracolo la morte.

Enzo Fileno Carabba ne «Il senso del dovere» ci propone un racconto psicologico e violento in cui è protagonista una mente malata e omicida.

Tanto per non saltare i famosissimi, soffermiamoci su Dacia Maraini che ne «L’uomo che sapeva amare» ci presenta lentamente, coi dovuti preamboli, un uomo che si congiunge con la protagonista senza le dovute protezioni, un Arcangelo –così si faceva chiamare- diabolico a dire il vero, in quanto affetto da Aids, che da anni seduceva minorenni. La giustificazione dell’Arcangelo, si fa per dire, è stata che non voleva morire da solo, spargendo un po’ della sua peste attorno a sé.

Nel «Delfino spiaggiato» Valentina Fortichiari ci racconta una storia liquida, di mare che entra dentro i polmoni di una donna incinta, massacrata da un maniaco, persuaso di aver fatto del bene. Perché, spesso tra gli sfasati mentali c’è la persuasione di essere nel giusto e che siano piuttosto pazzi i carabinieri che li arrestano.

Abbiamo citato solo brevi stralci a caso di racconti tutti letterariamente molto validi, adatti a mettere in guardia donne ingenue e a creare, se possibile, consapevolezza, in uomini bacati che anche per loro una cura salvifica potrebbe essere ancora possibile.

Un libro che apre alla speranza, anche se mentre lo stiamo recensendo, sentiamo di nuovi casi di violenza alla Tv. Chissà?

La mia famiglia e altri animali

Mercoledì 27 Marzo 2019

IL LIBRO. Romanzo autobiografico per Adelphi

Durrell e Corfù, storie di famiglia con bestiario

Divertente e ironica, la storia racconta cinque anni sull’isola

 

Grazie Giordani

 

Di Gerald Durrell (1925-1995) Adelphi ci propone ancora un piacevolissimo divertente romanzo autobiografico, ove l’autore si presenta ne «La mia famiglia e altri animali», (euro 10, traduzione di Adriana Motti) con l’autoaffermazione: «Questa è la storia dei cinque anni che ho trascorso da ragazzo con la mia famiglia nell’isola greca di Corfù. In origine doveva essere un resoconto blandamente nostalgico della storia naturale dell’isola, ma ho commesso il grave errore di infilare la mia famiglia nel primo capitolo del libro. Non appena si sono trovati sulla pagina non ne hanno più voluto sapere di levarsi di torno, e hanno persino invitato i vari amici a dividere capitoli con loro» In buona sostanza ci troviamo a leggere le vicende degli anni che il futuro naturalista Gerald Durrell ha diviso con la sua famiglia ed altri animali domestici nell’isola greca. Il libro è diviso in 3 sezioni, una per ognuna delle tre ville dove la famiglia visse sull’isola. La famiglia era composta da madre vedova e dai suoi figli: Larry, 23 anni, Leslie, 18 anni; Margo, 16 anni e ovviamente Gerald ( detto Gerry), insieme a Roger, il cane. Essi erano ferocemente protetti dal loro amico Spiro taxista (Spiro “l’Americano Hakiaoupulos”) e dal mentore, l’enciclopedico Dr. Stephanides Theodore, che inizia Gerald alla storia naturale.

Altri personaggi molto eccentrici sono gli insegnanti privati di Gerald, gli artisti e letterati che Gerald invita a rimanere e i contadini locali che fanno amicizia con la famiglia. La commedia umana è inframmezzata da descrizioni della vita animale che Gerald osserva nelle sue spedizioni in giro per l’isola e nelle varie case dove la famiglia vive, animaletti che spesso raccoglie e tiene come animali da compagnia: tra gli altri la tartaruga Achille, il piccione Quasimodo, Ulisse l’Assiolo (un piccolo rapace notturno), numerosi ragni. Alecko il gabbiano, due nuovi cagnolini di nome Pipi e Vomito e altri animali ancora molto amati.

Naturalmente, i personaggi principali sono membri della famiglia Durrell apparsi in tutti i capitoli. Si riporta la loro età nell’incipit della vicenda

La voce narrante è il decenne Gerry, amico di animali e contadini sull’isola, molto popolare, molto benvoluto. Durante i cinque anni a Corfù riesce a crearsi un vero zoo personale, costituito dai più svariati animali.

Roger,il cane, che lo accompagnerà in tutte le sue spedizioni, cui si aggiungeranno due cuccioli. Ci saranno dissapori coi fratelli e la madre del protagonista, perché non tutti gli animali racimolati saranno graditi.

La diciottenne Margo è la sorella di Gerry, ossessionata dalle diete. Durante i 5 anni trascorsi a Corfù riesce a fidanzarsi con un ragazzo turco. Fidanzamento breve. Quindi, l’amore scoppierà con Peter, l’insegnante di Gerry, ma l’impicciona madre lo allontanerà dall’isola

Leslie diciannovenne è il fratello di Gerry, appassionato di caccia e di barche.

Theodore Stephanides è il consigliere colto di Gerry, suo mentore in scientifiche materie.

Il ventitreenne Larry è il più vecchio dei fratelli, l’intellettuale del gruppo. Appassionato di arte e di letteratura.

Louise, madre dei ragazzi, vedova, è forse il personaggio più vago di tutta la vicenda. Non conosciamo la sua età, sappiamo che il tassista personale della famiglia Durrell si  getterebbe nel fuoco per lei.

Un libro difficile da riassumere. Divertentissimo da leggere. Che ebbe vari adattamenti televisivi. Tutti di grande successo.

 

 

 

 

IL RISOLUTORE Tra verità e verisimiglianza un romanzo di irrinunciabile lettura

Il risolutore

Grazia Giordani

Certo che per affrontare quattrocentoottantasei pagine di un romanzo, senza scollare l’attenzione dalla lunga e contorta trama, abbiamo la certezza che «Il risolutore», di Pier Paolo Giannubilo (Rizzoli, euro 20), sia un libro ipnotico che ci diverte spaventandoci, in perfetta sintonia con l’intenzione del duo Gian Ruggero Manzoni/Pier Paolo Giannubilo che si fanno due in uno.

Incontriamo le dinamitarde sommosse del Maggio Bolognese, dove   Ruggero, iscritto al Dams, si getta a capofitto, simpatizzante per l’estrema sinistra fin dagli anni liceali nel suo Lugo di Romagna. Anni difficili quelli di adolescente frustrato dal suo eccessivo peso corporeo, bullizzato dai coetanei. Divertente la descrizione del ventenne protagonista in corto pellicciotto di visone, supertatuato, anche se c’impensierisce l’eccesso di alcol e soprattutto di acidi e droghe di ogni tipo che ingurgita a più non posso. Ci scappa un morto. In carcere neofascisti e rappresentanti della sinistra estrema familiarizzano. Particolare non trascurabile il peso fatale del cognome che il protagonista si porta addosso, pronipote del grande Alessandro, cugino dell’irriverente Piero. Figlio del conte Giovanni e della contessa Enrica, già nell’origine ha dunque un forte fardello da sopportare. Tanto per non scostarci dall’incoerenza: a suo tempo partigiano, il padre, fascista, la madre. L’ estenuante intervista di Giannubilo ha quasi un effetto Dolby: udiamo voci, suoni, rumori, odori in una polivalenza che c’incanta. Tutta la narrazione è giocata tra il vero e il verosimigliante tra il possibile e il frutto onirico di allucinazioni. Solo i fatti realmente storici sono documentati in maniera rigorosa. Ad esempio «della mattanza dei suoi parenti dopo la Liberazione a opera degli stessi uomini con cui aveva combattuto, Giovanni aveva parlato a suo figlio in due sole circostanze. Entrambe le volte non era riuscito a trattenere i lucciconi». Un’intera famiglia fascista di cugini di Ruggero, persone buonissime e di nulla colpevoli,  era stata massacrata, compresa la servitù e il cane, come era avvenuto in Russia ai danni dello zar e di tutta la sua famiglia. Pare che per i Manzoni tutto avesse avuto origine da un cugino implicato nell’uccisione dei fratelli Rosselli. Sangue su sangue. E intanto Ruggero che convive col morbo di Crohn, con l’eccesso di adipe e con bulimia di ogni genere di vizi, famelico di sesso gratis e pagato, ha allucinazioni, crisi di panico e tendenza a punire le donne. Se Freud ha detto: «uccidete il padre», a noi verrebbe voglia di dire il contrario, perché alla dolcezza e al «laissez-faire» del conte Giovanni, si contrappone lo strapotere  della contessa Enrica.

Il ventenne protagonista non sopporta il carcere, per intercessione del padre, ripiegherà in marina. Nuova iscrizione al Dams  di padre e figlio. A nomi storici come Tondelli e Pazienza, si alternano nomi di fantasia, fino all’arruolamento del protagonista nelle missioni e ai servizi under cover in Libano e a quelle nei Balcani in fiamme, passando attraverso prodezze da killer, affascinato dalle avanguardie di ogni genere artistico, Ruggero evoca ogni eccesso in tutti i campi possibili. Ma sarà poi vero? Ai lettori l’ardua sentenza.

La bella prosa un po’ blasé di Giannubilo assomiglia fortemente al bello scrivere del Manzoni che, abituati come siamo a leggerlo anche in Facebook, sappiamo essere uomo di pace, dotato di cultura strepitosa in tutti i campi.

Difficile pensarlo killer, crudele mangiafemmine. Facile dire che questo è un poliedrico romanzo, fuori dall’usuale, che avrà fatto contento anche l’editore, visto che , appena uscito, il libro è già in ristampa.

Vite brevi di tennisti eminenti

Libri

TENNIS  LETTERATURA EDITORIA

UN TRIS VINCENTE DI MATTEO CODIGNOLA

Quando si dice il caso. Del resto anche il celebre romanzo di Irene Némirovsky era chiuso in una valigia e ne abbiamo scoperto il fascino molti anni dopo. E così in una valigia di un collezionista, amante del tennis, sono racchiuse foto del passato che,   capitate sotto gli occhi di Matteo Codignola, diventano una silloge stuzzicante.  Pubblicato da Adelphi, ci riferiamo a «Vite brevi di tennisti eminenti». (pp.290, euro 22), una curiosa sintesi che non appassionerà solo i cultori della racchetta, perché l’autore ci mette sotto gli occhi solleticanti sorprese, e almeno una scoperta dietro a nomi e volti ormai esotici – Gottfried von Cramm, Beppe Merlo, Pancho Gonzales – si nasconde qualcosa di cui il tennis arcaico era intessuto, mentre quello sopravvalutato di oggi, sembra averne smarrito anche il profumo. Quindi,  leggendo questo curioso fresco di stampa, è come se ci addentrassimo dentro un inaspettato intrico di sfiziosi racconti.

L’Autore non nasconde di amare forsennatamente il tennis e sostiene di aver compreso, alla vista di quelle foto, anni Cinquanta Sessanta, prima che nascesse il professionismo dei nostri giorni, ovvero prima dell’ Open 1968, che aveva trovato le storie ad hoc. Accortamente, a questo punto ha scelto 20 fotografie e le ha corredate di un’accurata didascalia quasi un capitolo. La sua originale silloge illustrata assurge al massimo livello di uno sport d’élite, non proprio popolare come il calcio.

Certo, il compito a Codignola ci sembra, maliziosamente, esser stato due volte più facile, in quanto tennista di valore non indifferente e, nel contempo, editor e traduttore di Patrick Mc Grath, Mordecai Richler, Patrick Dennis e John Mc Phee. Quando si dice aver le mani in pasta.

Restiamo incantati dalla nobile eleganza del barone Gottfried von Cramm, eppre, forza della contraddizione, «il più nobile giocatore a non aver mai vinto Wimbledon», o come quella di Eleanor Teach Tennant, la prima grande coach della storia del tennis: indipendente, sessualmente libera, quindi molto à la page, accolta a braccia aperte dalla Hollywood che conta, affezionatissima alle sue allieve.

Il più grande di sempre gli appare il losanghelino Pancho Gonzales (1928-95), purtroppo non conosciuto dalla grande massa, quella che solitamente sbraita nei campi da calcio. Inutile sottolineare che questo tennis è un’altra storia. Da evidenziare che nel 1969 , quarantunenne, Gonzales vince a Wimbledon la partita più lunga, mai giocata fino a quel momento.

A un certo punto Codignola si chiede quale sia il rapporto tra tennis e letteratura. A suo avviso, nel tennis c’è una grande ricerca della Bellezza, dell’eleganza nel gestire, nel modo di porgersi. Quindi, si verifica un parallelismo nel cercare la partita perfetta e la parola più originale e adatta per un bello scritto.

Sottolinea, inoltre l’autore di amare i talentuosi, ma sia nel tennis che in letteratura non basta il solo talento. E porta esempi concreti con nomi e cognomi. E il discorso si allarga ancora di più. Fino ad arrivare al raffronto fra tennis e editoria. E sempre più Codignola è di casa in questo singolare libro con foto d’epoca ed elegante linguaggio d’oggi, in cu il raffinato lessico, rafforzato da immagini virato seppia, ci affascina perché tutti conosciamo il potere forte dell’immagine.

Di Matteo Codignola Adelphi ha pubblicato anche «Un tentativo di balena» (2008) e «Mordecai»(insieme a Mordecai e Noah Richler, 2011).

Grazia Giordani

 

 

 

 

Nemici Una storia d’amore di Isaac Basevic Singer

LUNEDÌ 14 GENNAIO 2019

IL LIBRO. Adelphi ripropone Isaac B. Singer

La vita normale di un sopravvissuto all’Olocausto

In «Nemici – Una storia d’amore» le contraddizioni di Herman Broder

GRAZIA GIORDANI

Chi ha letto con grande interesse «Keyla la rossa» di Isaac Bashevis Singer (1904-1991), premio Nobel per la letteratura nel 1978, proverà identico coinvolgimento per «Nemici- Una storia d’amore» (Adelphi, pp.257, euro 18, traduzione di Marina Morpurgo), dove l’Autore sembra contraddire il suo pensiero personale, attribuendo una personalità opposta al personaggio del suo nuovo romanzo Herman Broder, rispetto a quanto aveva sostenuto anni prima nel corso di un’intervista.

A chi gli chiedeva dell’importanza che aveva avuto l’amore nella sua vita, Singer rispose: «Grandissima, perché l’amore è amore della vita. Quando ami una donna, ami la vita che è in lei». Vien fatto allora subito di chiedersi che amore dunque è quello che lega Herman, il protagonista del romanzo a tre donne contemporaneamente? Qualcuno ha scritto che potrebbe essere la trama perfetta per una commedia comica, se non fosse che i protagonisti sono ulcerati da traumi che hanno spezzato tutti i sopravvissuti dall’Olocausto.

Herman Broder ne è l’addolorato esempio. È un uomo spezzato dai ricordi, tanto che sembra essere rimasto con la mente nel fienile della moglie e salvatrice Jadwiga durante la guerra; i ricordi lo martirizzano come se i nazisti stazionassero ancora sulla sua porta di casa. Conduce una vita quasi surreale, abbandonandosi a relazioni amorose che navigano sulla continua menzogna, incolpando quel Dio che abbandona tutti, soprattutto gli ebrei. Se la moglie Jadwiga salvatrice vive da autoreclusa, l’amante Masha non è disposta a vivere nell’ombra e tutto si complica ancor più quando ricompare la moglie Tamara creduta morta.

«Adesso era bigamo e per di più aveva un’amante. Se lo avessero scoperto, avrebbero potuto arrestarlo e rispedirlo in polonia. Devo consultare un avvocato. Devo farlo subito. Ma come poteva spiegare una situazione del genere? Gli avvocati americani avevano soluzioni semplici per qualunque problema. Quale delle due amate? Divorziate dall’altra. Mettete fine alla tresca. Trovatevi un lavoro. Andate da uno psicoanalista. Herman immaginò il giudice con l’indice puntato contro di lui, nell’atto di leggere la sentenza: “Voi avete abusato dell’ospitalità americana”».

La vita di Herman è paradossale, un groviglio di scelte sbagliate che sarebbero comiche se non fossero tragiche. Si comporta come un affamato che s’ingozza di cibo per paura di morire di fame. Forse, questo nevrotico protagonista cerca un surplus d’amore (tre donne da gestire non sono fatica da poco), per sconfiggere la solitudine e la sua sindrome d’abbandono.

Il complicato romanzo è, in sintesi, un’intelligente analisi introspettiva, un susseguirsi di riflessioni anche se non legate al plot narrativo in senso stretto. Protagonista, oltre ad Herman con le sue finzioni e i suoi tormenti, è anche la religione, usi , tradizioni e controsensi del mondo ebraico, oltre a a lati oscuri poco noti.

Un romanzo che si presta a varie chiavi di lettura, espresso in uno stile narrativo originale, come originale è l’autore. Fascino e sofferenza si abbracciano stretti in questo romanzo tradotto anche in un celebre film, per la regia di Paul Mazursky 1989. Adelphi sta curando l’opera omnia dell’autore.

MORAVAGINE di Blaise Cendras

Oggi in Arena
 
Il libro L’immaginifico romanzo di Cendras
Il medico e la bestia un viaggio letterario nella schizofrenia.
Una strana coppia deve affrontare peripezie e incontri in mezzo mondo.
 
Grazia Giordani
 
Se amate una lettura immaginifica, concitata, che crei un po’ di controllato spavento, «Moravagine» di Blaise Cendras( 1887-1961),
(Adelphi, pp.249, euro 18, traduzione di Leopoldo Carra) fa per voi. Del resto è risaputo che la raffinata casa editrice di cui sopra, pubblica solo testi di comprovata letteraria bellezza. Quindi, andate sul sicuro.
Pubblicato da Grasset nel1926, dopo una gestazione di una decina d’anni, nel 1956 Cendras ha revisionato, corretto e completato il suo libro con un “Pro domo: Come ho scritto Moravagine”. E una Postfazione.
In un certo senso ci troviamo sotto gli occhi un metalibro, ovvero un libro nel libro, memori di certi film di Truffaut. E ci verrebbe voglia di scomodare anche il nostro Pirandello coi suoi “Sei personaggi in cerca d’autore”.
Tornando a bomba, il narratore Raymond La Science, presentato come un conoscente di Blaise Cendras (che compare lui stesso nel romanzo) ci racconta come la sua professione di medico gli abbia permesso di incontrare Moravagine, ultimo discendente di una famiglia di appartenenti all’Europa dell’Est in rovina. Questo folle pericoloso è internato per omicidio nella clinica di Waldensee, vicino a Berna. Affascinato dalla personalità di questa grande bestia umana, il medico gli favorisce la fuga. E la strana coppia di cui non è chiaro chi sia il più pazzo dei due, viaggia per il mondo macinando incredibili avventure, frequentando perfino terroristi russi o indiani d’America.
Credevamo fosse Dostoevskij il re del doppio in letteratura, con Cendras il doublage è ancora più complicato perché l’autore stesso si fa addirittura triplo, in una schizofrenia che Freud, redivivo, apprezzerebbe senza dubbio.
Scrittura normalissima, sotto il profilo formale, quindi in netto contrasto con un contenuto tanto tortile e aggrovigliato. Dicotomia tra forma e contenuti rende il romanzo ancora più singolare e ricco di stranezza .
Già difficile nella gestazione, questo parto letterario ha occupato l’Autore tra il 1914 e il 1925, mentre scriveva altri testi paralleli e dissimili. Mai contento, mai soddisfatto, lo ritoccherà più volte, come un pittore dai mille ripensamenti, che ricalca i colori o li alleggerisce, a seconda dell’umore del momento.
Addirittura, nell’ultima versione, presenta il suo libro come definitivamente incompiuto, in quanto privo delle opere a loro volta incomplete di Moravagine, alle quali il romanzo potrebbe avere il compito di semplice – si fa per dire – prefazione.
Tra i modelli di ispirazione di Moravagine, qualcuno azzarda il medico psicanalista Otto Gross, insieme ad Adolf Wolfiti (1864-1930), fortemente schizofrenico e quindi internato nel manicomio di Waldau vicino a Berna.
Autore di un grandissimo numero di opere (pittura, scrittura, musica, è ora conosciuto come uno dei creatori dell’Art Brut, scoperto da Jean Dubuffet. Altri modelli ispiratori si rifanno a Favez, soprannominato Il vampiro di Ropraz, un criminale svizzero che Cendras avrebbe frequentato durante il servizio nell’esercito francese nella Prima Guerra mondiale.

Gli inediti di G.Simoni

Leggendo romanzi gialli siamo abituati a definirli metafici, psicologici, sanguinari, drammatici, ma leggendo quelli di Gianni Simoni non possiamo trattenerci dal definirli “simpatici”, perché simpatico è l’autore e le situazioni che ci propone.

E questo è dunque il caso anche di «La chiave  rubata e altri racconti» ( TEA, pp. 229, euro 14), dove l’Autore si concede il lusso di percorrere la via al contrario – strada che si era concessa già il grande Simenon – ovvero quella,  che sottolinea in prefazione, – di porgerci un libro di racconti che, rimasti nel cassetto, ora trae fuori proprio per noi. Tutti gli autori, o quasi, iniziano dai racconti, ritenuti più facili (ah! Come si sbagliano, basterebbe pensare a Carver per citare uno fra i tanti) e passano poi alle lunghe narrazioni, qualche volta pletorici romanzi, perché se non si è Dostoevskij o Proust o Manzoni,  il lungo narrare finisce con l’annoiarci – e passano poi agli articolati romanzi.

Simoni, che lo faccia di proposito o che gli fossero rimasti nel cassetto, ormai a corto di idee, vi propone questa silloge in cui – dice «la particolarità consiste nel fatto che in alcuni racconti non ci troviamo di fronte a Petri che conosciamo, un ex giudice istruttore che spesso collabora con le forze di Polizia, ma a un Petri più giovane, nel pieno della sua attività di magistrato. Come si potrà rilevare – prosegue l’Autore – i suoi tratti sono però quelli che conosciamo dal carattere non facile, a volte un po’ burbero, volutamente, anche se dotato di ironia e di autoironia».

«Non è un eroe, ma un semplice galantuomo sempre rispettoso della varia umanità con cui viene a contatto anche se non sopporta, pur cercando di non darlo troppo a vedere, coloro che in cuor suo ritiene appartengano alla categoria degli sciocchi o dei furbi. E queste caratteristiche lo seguiranno negli anni, nel rispetto delle regole non potendo però rinunciare a una sorta di pietas che sente verso la vittima, ma in qualche misura anche verso il suo carnefice».

Fregandosene altamente di quanto affermano alcuni critici per cui la buona letteratura non dovrebbe mai essere autobiografica, Simoni  seque la strada contraria a Simenon – che in Maigret vedeva il suo alter ego rovesciato, il nostro ex magistrato va giù diritto, non facendo pedissequa cronaca di casi da lui conosciuti, ma creando una sapiente miscela di vero ed inventato, o meglio di fatti che potrebbero essergli veramente accaduti

E noi divoriamo sei storie inedite, sedendoci fra i personaggi, intimoriti e diverti allo stesso tempo, affascinati dalla vis comica di questo autore che per alcuni versi ci ricorda anche un po’ il Camilleri del Commissario Montalbano. Nord e Sud della nostra difficile Italia, senza dimenticare una spruzzatina belga di quel gigante di Simenon, formano un cocktail gradevolissimo che si beve tutto d’un sorso, conservando un po’ di sete, perché Gianni Simoni, che a suo tempo, si rivelò a noi  con «Il caffè di Sindona», in collaborazione con Giuliano Turone (Garzanti), da  anni per TEA ci ha abituati ai casi dell’ex giudice Petri e del commissario Miceli e delle indagini del commissario Lucchesi, due serie premiate entrambe da un progressivo consenso di pubblico e critica, sempre in aumento.

Grazia Giordani