Il fiuto del dottor Jean e altri racconti

IL LIBRO. I racconti di Simenon per Adelphi
Non c’è Maigret
ma il dottor Jean
tinge tutto di giallo
Grazia Giordani

Il personaggio del giovane medico nacque prima della seconda guerra
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martedì 15 maggio 2018 CULTURA pag.47
Chi ama Georges Simenon lo legge volentieri in tutte le sue espressioni, pur privilegiando l’autore del «roman dur» o del ciclo di Maigret, comunque «Il fiuto del dottor Jean e altri racconti» (Adelphi, pp. 163, euro 12 , traduzione di Marina di Leo) non è deludente. E anche se ad una prima lettura, può apparire quasi avvolto da un’aura di stanchezza, meno brillante, insomma, siamo pronti a ricrederci, accorgendoci, procedendo di pagina in pagina, che gli eroi letterari possono vantare differenti stature. E che il dottor Jean, con la tecnica della sordina, comincia a farsi nostro, mettendoci addosso la voglia di giungere al quarto racconto.
Il linguaggio è sempre simenoniano, ricercato senza affettazione. Simpatizziamo con il giovane dottore dei tempi lontani dai nostri, che viaggia, fregandosene, su un’auto sgangherata, prodigandosi a medicare ferite, a far nascere bambini, nel clima afoso del sud della Francia, dove bolle un’estate africana. E lui, imperturbabile, raggiunge una casa sperduta, dove è folgorato dalla vis dell’investigazione. E come avrebbe potuto essere altrimenti, uscendo dalla penna di Simenon ?
Per caso e per sua istintiva inclinazione, il dottorino diventa investigatore e i suoi teatrini con le forze dell’ordine ci mettono allegria. Anche noi lettori, talvolta, abbiamo bisogno che il noir sbiadisca in tinte meno fosche.
Tra il 1929 e il 1962 Georges Simenon ( Liegi, 1903-Losanna, 1989) ha scrittto ben 178 racconti.
Nella primavera del 1938, sebbene impegnato a seguire i lavori di ristrutturazione della sua nuova casa nella Charente-Maritime, l’autore continuò a produrre: non romanzi, ma «racconti di una cinquantina di pagine, uno al giorno». Tra gli altri ne scrive tredici dedicati a Jean Dollent, un gionane medico di campagna che i pazienti chiamano affettuosamente il dottor Jean, o anche il dottorino, il quale scopre di possedere insospettabili doti di investigatore. Un personaggio non meno accattivante dei segugi dell’Agenzia O: entusiasta, sensibile al fascino femminile e capace, al pari di Maigret, di mettersi nella pelle degli altri, dote non comune, certamente.
I quattro racconti proposti nel presente volumetto ( «Il fiuto del dottor Jean», «La signorina in azzurro pallido», «Una donna gettò un grido», «Il fantasma del signor Marbe») apparvero nella collana «Police-Roman» tra il 1939 e il 1940 e furono quindi raccolti in volume nel 1943.
Forse il racconto che ci ha maggiormente coinvolti è quello dedicato alla signorina in azzurro pallido, perché il fascino che esercita sul protagonista è contagioso.
«Fu mentre cercava gli spiccioli in tasca che scorse la ragazza in azzurro pallido, e si può dire che da quel momento non le staccò più gli occhi di dosso. Non era una ragazza, era “la” ragazza nella piena accezione del termine, con la sua freschezza, la sua grazia ancora incerta, la pelle chiara e vellutata, gli occhioni da gazzella. Il dottore pensò proprio a una gazzella!
«Impegnato com’era a rimirarla, si scordò di puntare. Il sette uscì per la terza volta e lui la vide raccogliere con un gesto distratto i gettoni che il rastrello del croupier le aveva spinto davanti . . .
Proprio quando la situazione comincia a tingersi d’inconsueto e di misterioso, affidiamo la pagina al lettore non meno curioso del dottorino, perché i gialli possono essere accennati, ma non raccontati fino all’epilogo spesso imprevedibile e stuzzicante.

Jazz, Rock, Venezia

IL LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52

Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52

Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Immagini e musica
a Venezia: quando
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52

Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52

Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Immagini e musica
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52

Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52

Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito

Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi

Grazia Giordani

Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte

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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e  in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere  più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia»,  (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante,   le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.

Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.

Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.

Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.

Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno  per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.

il fondo della bottiglia di Georges Simenon

IL LIBRO. Adelphi ripropone il romanzo

Simenon, il fondo
della bottiglia
è una voragine

Grazia Giordani

Un «noir» avvincente che nasce da una vicenda autobiografica

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martedì 06 marzo 2018 CULTURA, pagina 65

 

Con «Il fondo della bottiglia» di Georges Simenon ( Adelphi,  pp.176, euro18, traduzione di Francesca Scala), l’autore belga ci offre un noir nerissimo, con un sottaciuto coté autobiografico.

Protagonista di questo «roman dur» è uno stimabile avvocato che compare sempre con le iniziali puntate P.M.. Uscito, partendo dal basso, a conquistarsi un posto nella ristretta comunità dei notabili di Nogales, al confine tra gli Stati Uniti e il Messico, vede vacillare tutte le sue certezze quando gli compare davanti, evaso dal carcere in cui scontava una condanna, per il tentato omicidio di un poliziotto, il fratello minore Donald – quello debole, irresponsabile, sfortunato, eppure dotato di un’inquietante potere di seduzione – che gli chiede di aiutarlo a passare la frontiera.

Nel piccolo mondo costituito dai ricchi proprietari dei  ranch, l’arrivo dell’estraneo scatena una sorta di psicodramma, che culminerà in una vera e propria caccia all’uomo, mentre tra odio e amore, rancori e sensi di colpa, sbronze fenomenali, con liquori che scorrono a gogo, generando cruente scazzottate, si consuma la resa dei conti tra i due fratelli.

Donald, nella vita, non aveva mai combinato troppo di buono. E ora la bionda moglie Mildred con i tre figli, alloggiati in una squallida pensione, lo aspettavano   oltre frontiera. Aveva sempre sfruttato la sorella Emily che aveva saputo costruirsi una dignitosa vita, generosa col fratello.

«In fondo P.M. non conosceva per niente il fratello. A parte qualche vago ricordo d’infanzia. Lo conosceva meno di un estraneo appena incontrato. A Emily Donald chiedeva regolarmente soldi, no?  Nelle sue tasche dovevano essere finiti tutti i risparmi della sorella. Di sicuro la impietosiva con qualche frase ben congegnata, le parlava di Mildred, dei bambini. Probabilmente aveva provato a batter cassa anche dal padre, Quelli come lui, che parlano con compiacimento della propria sfortuna e della propria onestà, credono che tutto sia dovuto».

Naturalmente, il drammatico epilogo verrà scoperto solo dal lettore dello splendido romanzo, soprattutto da quello che conosce certi lati oscuri della vita dell’autore.

Bisogna dunque tornare nel 1945, quando al fratello Christian, condannato a morte in contumacia per aver coadiuvato le SS in una spedizione punitiva che aveva fatto 27 vittime, Georges aveva consigliato di arruolarsi nella Legione straniera: un modo per scomparire, certo e per riscattarsi, ma anche – cambiando cognome, per non compromettere lo scrittore ormai celebre con una parentela imbarazzante.

La madre rinfacciò sempre al figlio Georges la morte di Christian, allorché, ai primi di gennaio del ’48, lo stesso Georges le annunciò la morte nel Tonchino del figlio preferito. Nei mesi immediatamente successivi, quasi volesse espellere i propri fantasmi, Simenon scrisse due dei suoi romanzi più neri: «La neve era sporca» e  «Il fondo della bottiglia».

Scritto a Tumacacori nell’agosto del 1948, «Il fondo della bottiglia» apparve a stampa l’anno seguente. Nel 1956 Henry Hathaway ne trasse il film omonimo (alla cui sceneggiatura partecipò lo stesso Simenon) con Joseph Cotten e Van Johnson nei ruoli principali.

Le opere di Georges Simenon (Liegi 1903-Losanna 1989) sono pubblicate da Adelphi sin dal 1985.

Grazia Giordani

 

L’ULTIMA SCELTA

IL LIBRO. Il «noir» firmato da Leonardo Gori

Arcieri, misteri
e segreti sul filo
del doppio gioco

Grazia Giordani

Il colonnello in pensione è pronto per la sua forse ultima indagine

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domenica 25 febbraio 2018 CULTURA, pagina 59

Ormai ci siamo abituati alla Milano nera di Leonardo Gori, ai suoi cupi thriller invernali, tanto che si era creata attesa per «L’ultima scelta» (Tea, pp.337, euro 15 con cinque ricette di Elena Mani e illustrazioni di Francesco Chiacchio) e, come sempre accade, l’autore non ci ha delusi.

Siamo a Roma nel 1970 e il colonnello Arcieri, ormai in pensione, viene convocato in gran segreto da un alto dirigente dei Servizi, che gli prospetta un’ultima operazione: una fonte americana vuole vendergli informazioni utili a far saltare i così detti «Servizi deviati, ma intende trattare solo con Arcieri».

«Arcieri camminava tranquillo, nonostante fosse in ritardo, con le mani in tasca e il cappello ben calzato in testa. Attraversò piazza Navona godendosi la luce del tiepido sole invernale che bagnava i palazzi. Ogni scorcio, ogni pietra era un ricordo bello o brutto. Ma doveva stare attento a non farsi irretire dalle nostalgie. La sua vita ormai era a Firenze. Niente più Servizi segreti, niente misteri. Era un tranquillo vecchietto in pensione. Quella sortita romana doveva essere un’eccezione, l’ultimo debito da pagare. Poi avrebbe chiuso per sempre la porta ai fantasmi del passato».

Ma, nella vita, lo sappiamo bene, mai dire mai alle sgradite sorprese.»

E il colonnello Arcieri, quando meno se lo aspetta, alle prese coi suoi fantasmi, si trova a fronteggiare un caso complesso, dove nessuno è come lui s’immagina e tutti riservano inquietanti sorprese. Tra agenti deviati, traffici di informazioni riservate e ambigui personaggi, il nostro colonnello viene coinvolto in un’operazione pericolosissima, forse l’ultima della sua carriera.

Proprio a Roma,  nel 1970, dove l’abbiamo colto passeggiare da turista, viene convocato in gran segretezza da un alto dirigente dei Servizi, che gli prospetta un’ultima operazione: una fonte americana della CIA vuole vendergli informazioni utili a far saltare i così detti «Servizi deviati», ma intende trattare solo con Arcieri.

L’anziano colonnello accetta e viene condotto in una villa toscana, dove una sua vecchia conoscenza gestisce un pensionato per studentesse straniere, e dove vengono organizzati gli incontri con la fonte, l’agente Zero. Per poter manovrare con maggiore facilità Arcieri,  la spia americana gli svela subito di essere appoggiato anche da altri Servizi stranieri, tramite Elena Contini, il grande amore mai dimenticato del colonnello, e fa leva sul loro passato per metterlo in crisi.

Arcieri vorrebbe tirarsi indietro, colto da mille sospetti e tentennamenti, ma alla fine si lascia coinvolgere in una vicenda dove tutti conducono un doppio gioco, e dove è sempre difficile fidarsi di qualcuno.

Un romanzo fosco e algido in cui l’autore ci mostra il suo eroe invecchiato, tormentato da dubbi esistenziali che potrebbero alterare i delicati equilibri tanto faticosamente conquistati; un uomo stanco che si trova di fronte a un bivio cruciale, davanti al quale dovrà fare una scelta, l’ultima forse la definitiva . . .

Eppure, a noi sembra impossibile che Leonardo Gori ci voglia abbandonare, negandoci ancora qualche noir, legato al suo detective preferito. Restiamo in attesa. Non si sa mai.

 

 

LETTERE 1929-1940

IL LIBRO. Da Adelphi una raccolta epistolare dello scrittore irlandese. Una testimonianza di 60 anni della vita dell’autore

Viaggi, amori e sentimenti: lettere da Beckett

Grazia Giordani

Gli scritti pubblicati rivelano quanto molteplici fossero le sue attività dalla lettura alle arti

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martedì 06 febbraio 2018 CULTURA, pagina 47

Ogni volta che ci accingiamo a leggere un epistolario abbiamo l’imbarazzante sensazione di origliare la vita del prossimo attraverso il buco della serratura. Ma se questo prossimo è Samuel Beckett ( 1906,Dublino -1989 ,Parigi) -, ci sentiamo assolti, perché l’autore nel suo corposo fresco di stampa «LETTERE 1929-1940» (Adelphi,  pp.528, euro 50,  a cura di George Craig, Martha Dow Fehsenfeld, Dan Gunn e Lois More Overbeck. Edizione italiana a cura di Franca Cavagnoli. Traduzione di Massimo Bocchiola e Leonardo Marcello Pignataro), scrive come se parlasse ad alta voce, ben consapevole del fatto che, ammirati, lo ascoltiamo parlare moltissimo e di tutto: del suo primo datore di lavoro Mr Joyce; delle regioni più impervie della psiche, che esplorava con l’aiuto di Wilfred Bion, delle numerose lingue che abitava e da cui spesso si sentiva posseduto.  Delle molte donne da cui è stato amato. Non ci nasconde neppure la miseria in cui spesso è costretto a vivere, né la stupefacente quantità di rifiuti editoriali accumulati dal suo primo romanzo «Murphy». E dei suoi viaggi in Europa, su cui spicca una straordinaria esplorazione della Germania di Hitler, in cui il Nostro si addentra con il proposito di vedere quadri degli antichi maestri, come pure dei moderni, curioso come tutti gli uomini superdotati d’intelletto. Soprattutto di quelli che i nazisti, ritenendoli degenerati, avevano fatto sparire dalla circolazione.

Samuel Beckett è stato indubbiamente uno dei più grandi autori di carteggi del Novecento Le sue lettere – che coprono un periodo di sessant’anni dal 1929 al 1989, oltre ad essere straordinarie per numero ( più di 15.000 quelle reperite e trascritte dai curatori della presente edizione), lo sono anche per assortimento ed intensità. Rivelano quanto molteplici fossero le sue attività: leggere in maniera sistematica i classici e le letterature di culture diverse; impratichirsi di musica e di arti visive; tenersi in contatto con una grande varietà di conoscenti; rispondere in modo tempestivo ed educato ad ogni lettera, anche quando era famoso – premio Nobel per la letteratura nel 1969 – , solo per citare uno degli ambitissimi traguardi da lui raggiunti.

Beckett è uno di quegli scrittori al pari di Kafka e Joyce che non ebbero solo lettori, divenendo addirittura autori di culto. L’autore di «Aspettando Godot» si era trasferito a Parigi, scappando dalla detestata Dublino, per rompere il legame di amore-odio che lo legava a sua madre May, oltremodo possessiva. A Parigi conosce Joyce che ha con la nevrotica figlia Lucia un rapporto altrettanto complicato. L’attraente Lucia, viziatissima, coetanea di Samuel, se ne innamora, ma nella testa del dublinese è solo un ostacolo all’amicizia col padre e così – gli successe di rado nella vita –  la respinge senza mezzi termini, involontariamente la umilia. Fine del rapporto con Joyce e fiume di lettere all’amico di college Thomas McGreevy che lo aveva presentato a Joyce. Leggiamo quindi il resoconto dettagliato della sua infinita tristezza, degli innumerevoli sintomi nevrotici: bubboni deturpanti, insonnie e soprattutto l’incrudelirsi di ataviche insicurezze.

«Sai, non riesco più a scrivere» si dispera in una lettera a McGreevy. In altre lettere non tace la sua disperazione per analoghi motivi.

Leggendo le stupende lettere di questo grande e contorto autore, uomo affascinante anche nell’aspetto fisico, conosciamo i suoi amori e i suoi umori, la sua genialità.

La nemica

L LIBRO. Brunella Schisa per Neri Pozza

Truffe, furti, intrighi
La Francia ai tempi
di Maria Antonietta

Grazia Giordani

«La nemica» ripercorre le vicende di Jeanne de la Motte nel 1785-91

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domenica 31 dicembre 2017 CULTURA, pagina 61

La copertina di «La nemica»

Grazia Giordani L’affascinante libro di Brunella Schisa

L’affascinante libro di Brunella Schisa «La nemica», (Neri Pozza, pp.428, euro18) ci racconta nel dettaglio non una storia romanzesca, come potremmo sospettare, piuttosto la cronaca, in bello stile letterario,  di quello che successe tra il 1785 e il 1791, quando Jeanne de la Motte, la celebre avventuriera, discendente decaduta dei Valois di Francia, ordì e realizzò una delle truffe più colossali della storia, contemporaneamente organizzando ai danni di Maria Antonietta una feroce ed efficace campagna denigratoria. La maliosa avventuriera si è macchiata di tre gravi reati: furto, falso e lesa maestà. Fingendo di agire per conto di Maria Antonietta, ha convinto il grande elemosiniere di Francia, il cardinale Rohan, a comprare e consegnarle un favoloso collier di diamanti con oltre seicento pietre tra le più belle d’Europa.

Jeanne de la Motte subì l’arresto, fu sottoposta a pubblico supplizio, com’era nell’uso di quel tempo e, imprigionata a vita, riuscì a fuggire in maniera rocambolesca, degna di un classico romanzo d’avventure, abbandonando il carcere e mettendosi in salvo fuori dai confini di una Francia martoriata dalla Rivoluzione e dai suoi sanguinari fautori.

Naturalmente, un romanzo del genere non viene scritto di getto, ma è frutto di una lunga gestazione, fatta di accurate ricerche storiche e letterarie (persino Dumas, a suo tempo, se n’era interessato, scrivendo addirittura un romanzo sull’ «affair du collier de la Reine» ed anche Victor Hugo non era rimasto indifferente alla pruriginosa storia, raccontando il suo incontro con il principale complice di Jeanne, lo squallido marito Nicolas de la Motte).

L’Autrice si concede solo l’invenzione di due personaggi indispensabili al concatenarsi della trama.

Il libro torna utile, in maniera piacevole, anche a fini didattici, permettendoci un gradevole ripasso dei prodromi della Rivoluzione francese, dell’assetto politico della Francia di Luigi XVI, della disastrosa situazione economica del suo regno, dei fatti del luglio 1796 e delle loro conseguenze fino al 1791, anno della morte di Jeanne de la Motte, pur mantenendo qualche ragionevole dubbio sulla veridicità di questa morte, poiché non v’è certezza assoluta sulla versione storica ufficiale.

Del resto, un po’ di mistero non guasta.

Altro interessante protagonista dell’intrigante ed intrigato caso storico, oltre a Jeanne de la Motte, è Marcel, un giovane giornalista, cui lo zio, Jacques Renéaume de la Tache ( anch’egli realmente esistito: fu giornalista ed editore della Gazette de Gazzettes) insegna  il mestiere, e nemmeno troppo in sordina.

Brunella Schisa, l’illuminata autrice, a sua volta importante  giornalista ci parla di fake news, di manipolaioni dell’opinione pubblica e dei disastri che ne posson scaturire, ci racconta di politici incapaci, di costumi decadenti e di coscienze corrotte.

Potremmo quasi dire, per estensione,  che ci troviamo di fronte ad un vero racconto solo parzialmente fatto anche di fiction, un réportage   valido anche ai tempi nostri, sotto l’abito di un romanzo storico, perché il cuore dell’uomo, nonostante il migrare dei secoli, in buona sostanza cambia poco.

Grazia Giordani

 

 

LA LUNA IN GABBIA

IL LIBRO. Il nuovo romanzo di Maria Sardella

La luna in gabbia:
storie di donne
tra favola e realtà

Grazia Giordani

Un realismo magico coinvolgente e tanti personaggi pieni di umanità

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lunedì 18 dicembre 2017 CULTURA, pagina 57

Se ci sono romanzi che arrivano a noi con un intenso passaparola, questo è il caso ben giustificato de «La luna in gabbia» di Maria Sardella (Pubgold, pp.224, euro 12), pervaso da un realismo magico che sarebbe piaciuto a Garcia Marquez e a Elsa Morante, in questo romanzo di cui stiamo parlando, con una allure più volutamente paesana. Deliziosi i disegni che sottolineano la prosa, a cura di Bianca Simoni, capaci di regalare la delicata illusione di un fumetto a una narrazione che sa di favola, sorretta da schietta umanità. Favola sì perché incontriamo anche cornacchie e galletti di latta, dotati di mente e cuore che hanno parti importanti nella narrazione.

Abbiamo la sensazione di essere in una Sicilia d’antan.  Personaggio  che incuriosisce subito è il Viaggiatore, fornito di una curiosa gabbietta vuota all’arrivo in paese.

«La gabbietta aveva la porticina spalancata, fissata con un pezzetto di fil di ferro in modo da non potersi richiudere. La vaschetta dell’acqua era ricolma e una spiga di panico era incastrata tra le sbarre sottili. Una ciotola di creta con pezzetti di mela annerita e una con mangime. Sul fondo della gabbietta era stesa una pagina di giornale, qui e là le deiezioni anche di volatili. Sul ripiano della scrivania una scatola di mangime per uccelli insettivori».

Personaggi importanti femminili sono Giovanna e Clelia. Nipote e zia.

Giovanna è una giovane moderna che rifiuta gli orpelli di un matrimonio borghese, quando sposa il suo Riccardo e fa braccio di ferro con la madre Teresa che le impone l’abito da sposa bianco. Clelia ha un oscuro segreto da custodire che l’induce a nozze riparatrici con un marito consenziente che la rispetta, pur sapendo di non essere amato.

Quattro sono le principali voci narranti, fatte di giovani, vecchi, adulti e bambini, senza escludere cornacchie e galletti di latta, perché anche loro giocano ruoli importanti. Punto chiave del romanzo è l’amore contrastato tra Clelia e Peppe, lo straniero eccentrico e muto che, verso la fine, sentiremo parlare. Non meno importante, anche se più consueto e non denso di dolorosi misteri, l’amore tra Giovanna e Riccardo che hanno un figlio sognatore, amante delle storie meravigliose, di cui Clelia non è cero avara, lei che sa parlare con le anime dei morti, che sa consolare le paure dei bambini. Ricca di misteri, la pagina dell’autrice, ci parla anche di un abito da sposa scomparso, su cui l’enigma si scioglie solo alla fine. E di una già accennata coppia di animali che si appropriano della parola per svelarci segreti. Interessanti anche i personaggi minori, il prete, per esempio, tanto per citarne uno fra i tanti. Anche i paesaggi hanno un’anima in questa bella narrazione da cui non sappiamo staccare gli occhi, lasciando la soluzione dei misteri, come sempre, tutta al lettore.

Maria Sardella vive a Brescia. Esordisce con il romanzo «Così è la vita, amore mio» (Altrimedia, 2009», primo premio «Città dei Sassi»2008. Autrice di racconti (Storie.Rivista Internazionale), traduttrice con «L’ultima estate della ragione»di Tahur Djuout (Bibliofabbrica, 2009). Ritorna al romanzo nel 2013 con «La musica del mais» (Bibliofabbrica, 2013).

Tutti i suoi racconti nel blog Otium www.ipuzziundo.blogspot.com.

 

 

I DIARI BOLLENTI DI MARY ASTOR

IL LIBRO. La ricostruzione di Edward Sorel

diari di Mary Astor
scandalo a luci rosse
nell’America del ’36

Grazia Giordani

Sotto i riflettori un’attrice famosa e il commediografo di Broadway

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martedì 12 dicembre 2017 CULTURA, pagina 48

Leggiamo ne «I diari bollenti di Mary Astor- Il grande scandalo a luci rosse del 1936» di Edward Sorel  (Adelphi, pp.169, euro 20, traduzione di Matteo Codignola), una storia vera raccontata in maniera ipnotica, con l’allure che si rivive dentro un sogno. Comunque, il segreto che rende questo libro anche strutturalmente diverso da qualsiasi altro, consiste nella scintilla che ha dato inizio a tutta questa vicenda, ovvero al ritrovamento casuale, durante una ristrutturazione d’interni, di alcuni ritagli di giornale che di quel processo tracciavano la cronaca. Leggendoli, Sorel, ha fatto un balzo indietro, regalando al lettore la ricostruzione di un ricordo di giovinezza, di uno scherzo sentimentale, di un’invenzione da tabloid.

Eduard Sorel, nato a New York nel 1929 è un disegnatore di grido. Ha firmato moltissime copertine del New Yorker, ha scritto ed illustrato molti libri e per decenni ha coltivato una vera ossessione per Mary Astor, diva del muto e poi del noir, premio Oscar nel 1942 per «La grande menzogna» a fianco di Bette Davis. L’attrice ebbe l’ultima parte importante nel 1964 in «Piano piano dolce Carlotta», ancora con la Davis. Ormai lo scandalo del suo divorzio, nel 1936, è caduto nel dimenticatoio, ma Sorel, col ritrovamento casuale dei ritagli di giornale, di cui sopra, ovvero tutti numeri del Daily News e dei Daily Mirror, datati 1936, proprio l’anno dello «scandalo a luci rosse».

Riguardavano il processo a Los Angeles per l’affido di una ragazzina, Marylin, figlia di Mary Astor e del secondo marito. Che aveva usato i diari di Mary, scoperti quando il matrimonio era ancora in atto, per farle rinunciare ad ogni diritto sulla bambina. Ma la Astor nel 1936 aveva impugnato la sentenza e allora il marito aveva reso nota ai giornali l’intenzione di far pubblicare i diari che raccontavano un adulterio e molto di più, ovvero pagelle ai suoi amanti, in base a criteri legati alle loro prestazioni sessuali.

Fatti che oggi sarebbero meno gravi, tanto è scivolata in basso la morale dei nostri tempi, ma negli anni Trenta, con protagonista un’attrice famosa che raccontava le sue notti bollenti con il più importante commediografo di Brodway di allora, George S. Kaufman, era una bomba deflagrante.

I disegni e le vignette di Solel che illustrano nel libro le piccanti vicende sono bellissimi, ironici e persino toccanti quanto basta.

L’autore, così singolare, è riuscito a parlare anche con Marylin, la bambina di allora che vive nello Utah in una casa su ruote, che ha avuto quattro figli e quaranta fra nipoti e bisnipoti. «L’ho molto amata la mamma – ha detto – ma mi ha fatto anche paura. L’aveva sempre vinta lei. Aveva sempre ragione lei».

Edward Sorel, dopo il fortuito ritrovamento dei ritagli di giornale, ha deciso di lottare per Mary Astor che non era una stella eccezionale, ma meritava un po’ più di luce, non solo quella «a luci rosse».

Il suo diario, comunque, è stato bruciato nel 1952 davanti a un giudice.

Dalla scrittura di Sorel, oltre alla storia della diva, emerge lo spirito della città di cartapesta di quel tempo su cui molti, troppi giovani avevano imbastito i lor

Alfabeto d’origine

l saggio pubblicato da Neri Pozza

Ecco l’«alfabeto»
al femminile
di 
Lea Melandri

Una «scrittura d’esperienza» per affrontare il linguaggio del corpo

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giovedì 30 novembre 2017 CULTURA, pagina 56

Grazia Giordani Neri Pozza ci propone la lettur

Neri Pozza ci propone la lettura di una complessa silloge di saggi intitolata «Alfabeto d’origine» (pp. 169, euro 16), opera di un’autrice anomala che si stacca da tutti i canoni consueti e che per questo c’incuriosisce pur sollevando in noi qualche perplessità.

Fin dai tempi più antichi la filosofia del linguaggio ha occupato seri studi di filosofi e filologi. Sulla scia del secondo Wittgenstein e delle tesi del grande Martin Heidegger la nuova filosofia del linguaggio nega la natura strumentale dello stesso e lo considera come una condizione originaria dell’umano, come la sua essenza, facendo dipendere fin dall’inizio l’intelligenza umana dalla lingua.

Nell’opera di Lea Melandri incontriamo piuttosto una «scrittura d’esperienza» atta ad interrogare il suo pensiero, il suo radicamento nella memoria del corpo, nelle sedimentazioni profonde che hanno dato forma inconsapevolmente al nostro sentire in quelle zone remote e “innominabili” ove la storia particolarissima di ogni individuo incontra comportamenti umani che sembrano eterni, immodificabili, uguali sotto ogni cielo: passioni elementari, sogni, costruzioni immaginarie, rappresentazioni del mondo, nella sua ottica, riconoscibili in ogni spazio e tempo.

Tra queste vanno a collocarsi le figure del maschio e del femminile che il corso della storia ha modificato ma non al punto da cancellare i tratti della vicenda originaria che ha dato loro volti innegabilmente duraturi.

«Ho scritto per essere raggiunta – precisa la singolare saggista –  ma anche per marcare una distanza, per aprire un varco alla memoria e per consolarmi di averla perduta, per segnalare il bisogno d’amore e per ritenermi paga di averlo trovato per altra via».

La scrittura dell’autrice parte dunque da sommovimenti interni, legata all’autoconoscenza, all’esplorazione di zone che tutti tenderemmo a rimuovere, passioni elementari.  E raccoglie il suggerimento di Asor Rosa ne «L’ultimo paradosso» parlando di frammenti di parole, spezzoni di significato, cristalli di idee-tutto un pulviscolo di immagini e di sensazioni, una vera e propria mineralogia del pensiero, per cui non sembriamo avere, per ora, né classificazioni né definizioni.

In prefazione alla silloge, la  Melandri precisa anche che sebbene apparentemente slegati «i libri raccolti in questo libro hanno una storia che li accomuna e lontane radici in un paese. Parlano di una lingua ritrovata – nei brevi tragitti più autobiografici – di corrispondenze amorose – negli accorpamenti con le voci e le parole di autrici e autori amati – di scrittura di esperienza come tentativo di andare alle radici dell’umano, a partire dai corpi e dai segni che lascia su di essi l’infanzia».

Lea Melandri è nata a Fusignano (Ravenna) nel 1941, vive a Milano dal 1967. Ha insegnato in vari ordini di scuole e nei corsi per adulti. Tiene attualmente corsi presso l’Associazione per una Libera Università delle Donne di Milano, di cui è stata promotrice insieme ad altre fin dal 1987 e di cui oggi è presidente. Prende parte attiva al movimento delle donne negli anni Settanta. Di questa ricerca sulla problematica dei sessi, che continua fino ad oggi, sono testimonianza le sue numerose pubblicazioni. Nel 2012 ha ricevuto dal Comune di Milano l’Ambrogino d’oro come “teorica femminista”.

Grazia Giordani

Un caffè alle mandorle

LIBRO. Il noir di Nardi, edito da Neri Pozza

Dentro il «Caffè
alle mandorle»
retrogusto di mafia

Grazia Giordani

Il capitano dei carabinieri Perego a Palermo nel ’78: fiction o realtà?

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giovedì 23 novembre 2017 CULTURA, pagina 48

La morte annunciata in questi giorni di una belva chiamata Toto Riina non ci ha arrecato certo dispiacere, anche perché ci offre il destro bello pronto, per parlare di «Un caffè alle mandorle» di Massimiliano Nardi (Neri Pozza, pp.381, euro 18).

Come un’intrigante matrioska, già nel nome dell’autore, questo noir quasi verità, debutta col mistero di un nom de plume, perché lo scrittore si diverte a giocare a nascondino con chi si appresta a leggerlo. In realtà, come si chiama?

Superato questo primo scoglio d’identità, poniamo attenzione all’avvertenza iniziale che sottolinea come: «seppur collocati nel contesto di fatti realmente accaduti, le storie narrate in questo libro sono il frutto della fantasia dell’autore. Il ruolo dei personaggi, delle società, delle organizzazioni dei partiti politici, delle testate giornalistiche, dei programmi radiofonici e televisivi, delle pubbliche amministrazioni e in generale dei soggetti pubblici e privati realmente esist,i è stato liberamente rielaborato e romanzato, così come la partecipazione alle vicende immaginarie dei personaggi inventati dall’autore. Qualsiasi collegamento con persone vissute o viventi, non esplicitamente individuate, è perciò puramente casuale. L’improbabilità degli eventi raccontati in questo libro è la prova che sono veramente accaduti»

Superato il contraddittorio avvertimento, finalmente entriamo nel milieu di una trama cinematografica che ci fa vedere lo splendore e la decadenza di una Sicilia ammaliante. Siamo a Palermo negli ultimi mesi 1978 quando il trentenne capitano dei carabinieri Perego riceve la sua nuova assegnazione, proprio nel momento in cui Anna, la sua giovane moglie, avrebbe più bisogno del suo conforto, essendo in attesa del primo figlio. Ma il capitano non può rinunciare, Palermo lo attira come una sirena col fascino innegabile della capitale di millenario prestigio, con fondali di bellezza ineguagliabile. Pur alla luce dei fatti che la città è diventata, stando ai rapporti interni all’Arma, un vero campo di battaglia tra l’ala moderata della mafia e belve come Riina e Provenzano, latitanti, quasi fantasmi, pur nella loro costante presenza, Perego non demorde. Eppure, è consapevole di avere una visione soprattutto letteraria di questa fascinosa e sfuggente terra. Conosce Sciascia, e poi neanche, perché «Il giorno della civetta» l’ha più visto in film che letto nel romanzo. Però è un giovane sveglio e curioso quanto basta, tanto che appena giunto in città, non si nega una visita al Charleston, l ristorante liberty dove Michele Greco dispensa oboli di ogni tipo per trarre a sé questuanti, oppure una riunione in caserma dove apprende che per il capo della Procura non farsi i fatti propri riguardo le cosche mafiose, significa rovinare l’economia siciliana. Pericoloso cercare di comprendere la natura di Cosa nostra in Sicilia.

Per simpatico contraccolpo, la vita del capitano è allietata dalla nascita di una figlia al Nord, a Pavia, ma le dolcezze private sono presto sconvolte dall’ uccisione di un suo confidente e la morte di Boris Giuliano, colpito vigliaccamente alle spalle.

Un persistente ed enigmatico fil rouge conduce l’intelligente capitano a imbattersi nella figura di Michele Sindona, in fuga da New York e riparato in Sicilia, protetto al punto da sconfiggere il coraggioso Perego trasferito a Roma e quindi al Nord. Ma non è detta l’ultima parola. A Pavia il nostro capitano riceve solleticanti rivelazioni inerenti Sindona, che lasciamo alla curiosità dei lettori, soprattutto a quelli amanti di un buon caffè alla maniera siciliana.

Grazia Giordani