IL LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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a Venezia: quando
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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a Venezia: quando
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Immagini e musica
a Venezia: quando
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
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C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
<
L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
<
L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Immagini e musica
a Venezia: quando
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
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C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
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C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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a Venezia: quando
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Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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a Venezia: quando
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
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C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
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Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
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Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
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Grazia Giordani
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Immagini e musica
a Venezia: quando
i sogni sono ricordi
Grazia Giordani
Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
venerdì 11 maggio 2018 CULTURA, pagina 52
Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Tre personaggi in cerca di futuro che trovano la salvezza nell’arte
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
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C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.
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Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
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Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
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L LIBRO. Il romanzo di Roberto Saporito
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Grazia Giordani
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Già di Roberto Saporito abbiamo avuto modo di apprezzare la finezza di scrittura nei romanzi «Come un film francese» (2015) e in «Respira» (2017) , solo per citare due delle sue opere più note, ma nel suo fresco di stampa «Jazz, Rock, Venezia», (Castelvecchi, pp 93, euro 13, 50),notiamo l’acuirsi di uno spleen proprio all’autore, una capacità di rendere protagonista la malinconia che sa farsi dolorosa solitudine. Nella Venezia dello scrittore piemontese, aleggiano ricordi di «Anonimo veneziano», vaghe reminiscenze di «Morte a Venezia», impalpabili, impercettibili, come un pulviscolo leggero che incipria, insinuante, le vite apparentemente slegate di due musicisti e di un’antiquaria fotografa, proiettati in una città senza tempo, in pieno contrasto con Los Angeles, New York, Roma. Soltanto la maliosa città lagunare sa farsi culla di una sua inimitabile atemporalità.
Solo qui è possibile autoimprigionarsi, celarsi, come accade alla protagonista che da lunghissimo tempo non si sposta dalla città lagunare e riempie la sua solitudine con gli impudichi clic della sua piccola macchina fotografica che sa insinuarsi sotto le gonne di modelle non sempre consenzienti.
Ad un esteta come Saporito la cornice più preziosa al concitato plot narrativo non può essere che l’Arte baluginante d’oro di una città vibrante di esagerata bellezza.
Arte che tocca l’acme non solo paesistico architettonico, ma elemento salvifico di vita , secondo una visione cara a Dostoevskij. Non dimenticando nemmeno la musica in questa poliedrica visione, piena di effetti Dolby, come si respira in certi film. Arte come salvezza, ritmata da un’indovinatissima colonna sonora «Ascenseur pour l’échafaud di Miles Davis, e con continue sottolineature letterarie (del resto l’autore non è avaro nemmeno nell’esergo di citazioni indovinate e fulminee), senza trascurare la fotografia, spesso frutto di furtive appropriazioni, se pensiamo all’antiquaria fotografa.
C’è musica anche nel linguaggio di questo singolare romanzo. Provate a leggerne pagine a voce alta per carpirne un canto sotterraneo che culla gli smarrimenti dei personaggi cui ci accodiamo per non perdere nulla dei loro pensieri, dal trombettista jazz, al chitarrista indie rock, sottolineando soprattutto la stravagante fotografa antiquaria. Entriamo, nel corso della breve lettura, nelle loro ossessioni e nelle loro fobie: c’è chi va alla ricerca della leggendaria isola deserta, chi decide di girare il mondo sulle tracce del proprio mito, chi – come la protagonista – sceglie di vivere prigioniera dell’amato scomparso.
Venezia è l’amabile colpevole di storie così sfrangiate e nel contempo consistenti, dove la solitudine è un insistito refrain che sovrasta su voci e pensieri individuali e corali, coinvolgendo il lettore più acuto, quello che sa gustare letterari transfert per arricchire il proprio vissuto.
Solitudine, quella del romanzo, contraddittoria, in quanto capace di generare incontri, anche col lettore che entra inconsapevolmente fra le pagine e si accomoda al fianco dei protagonisti, illudendosi di appartenere un po’’, almeno per qualche secondo, alle loro letterarie esperienze.