A proposito di Cecov

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BIOGRAFIA DA NOBEL

Folgoranti memorie su Cechov dell’allievo Ivan Bunin che vinse il Nobel per la letteratura nel 1933 ed è a torto ignorato. Demolisce i cliché e rivela verità

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Cechov e Gor'kij a Jalta: il grande scrittore si confidò con Ivan Bunin

Cechov e Gor’kij a Jalta: il grande scrittore si confidò con Ivan Bunin

In tempi passati, quando la letteratura era un fatto serio e i lettori avevano un palato fino, avrebbe avuto grande successo un saggio singolare come quello di Ivan Bunin, A proposito di Cechov, che Adelphi ora propone (223 pagine, 14 euro, traduzione di Laura Zonghetti), impreziosito dall’acuta prefazione di Claire Hauchard. E ci auguriamo che vi siano ancora lettori in grado di gustare simili finezze, perché, seppur frammentario, in quanto scritto dal saggista in un momento di grave malattia, questo testo è una rara perla, piena di stuzzicanti novità.
«Che cosa scriverete sul mio conto nelle vostre memorie?» chiese un giorno Cechov a Bunin. «Vi prego, evitate di scrivere che ero “un simpatico talentuoso e un uomo di specchiata onestà”». La curatrice non nasconde le difficoltà incontrate nel catalogare l’opera che Bunin scrisse nel 1952, dedicata a colui che era stato il suo referente assoluto in ambito letterario oltre che l’amico più caro negli anni compresi tra il 1895 e il 1904. Dentro questo saggio/non saggio, fra le pagine di queste memorie, che proprio perché non sono state troppo ritoccate ci appaiono ancora più genuine, troviamo spicchi di vita inediti, ora commossi, ora divertiti, del grande Cechov che pagina dopo pagina ci appare sempre diverso, statico e dinamico insieme. Lo scopriamo nella dimensione quotidiana, alle prese con la malattia, i suoi familiari, l’amore e un ideale artistico rigoroso.
Che cosa pensava della morte? Sostenne diverse volte, categorico e convinto, che l’immortalità, la vita oltre la morte in qualunque forma era un’emerita sciocchezza. «È pura superstizione. E la superstizione è da temersi in ogni sua ipostasi. Il pensiero deve essere lucido e ardito. Prima o poi dovremo parlarne seriamente, sapete? E, quant’è vero che due più due fa quattro, vi dimostrerò che l’immortalità è una sciocchezza». In altre occasioni, contraddittorio come sanno esserlo soltanto gli artisti, gli scrittori, gli uomini che vivono in un altro pianeta, avrebbe sostenuto l’esatto contrario, in maniera ancora più determinata. «Una volta morti non scompariamo, non è possibile. L’immortalità è un fatto. Concedetemi un istante e ve lo dimostrerò».
Bunin ci fa compiere un viaggio ondivago dentro il cuore e i sentimenti del grande russo, soffermandosi su ricordi privati, partendo dall’infanzia di un bambino che era sopravvissuto a un padre manesco e a una miseria sempre incombente, sicché poi l’uomo si dimostrò abbastanza forte a sostenere molto presto la famiglia e più tardi il peso di una tubercolosi senza scampo che non gli impedì di sottoporsi a una dura disciplina: lavoro, lavoro e ancora lavoro. «Se si ha qualche talento, allora lo si coltivi, sacrificandogli ogni altra cosa». Insomma, nella sua ottica, lo scrittore non deve mai abbandonare la penna. Dello stesso parere sembra essere Bunin che assemblò questi lacerti di vita del grande amico, quasi alle soglie dell’aldilà, facendosi aiutare dalla moglie. Com’è strana e ricorrente la vita, Cechov era morto da quasi cinquant’anni quando uscì il quasi saggio di Bunin, pure postumo.
Nonostante l’amicizia e la confidenza che legava Bunin e Cechov, il capitolo del grande amore impossibile per la scrittrice Lidija Avilova nasce dalle memorie della donna. Il rispetto per la verità spinge l’allievo a parlare anche di questo, regalando ai lettori una storia che sarebbe rimasta segreta, tanto vagheggiata, quanto impensabile nella sua clandestinità.
Anton Cechov (1860-1904), chiunque ami la letteratura lo conosce, almeno per le sue opere principali: Il giardino dei ciliegi, Il gabbiano, Tre sorelle, Zio Vania, Ivanov, L’orso, solo per citarne alcune. Grande anche nei racconti. Ma cosa avremmo conosciuto sulla sua vita se l’amico allievo Ivan Bunin, (1870-1953) dimenticatissimo premio Nobel per la letteratura (conferitogli nel 1933, mentre era rifugiato a Parigi) non ci avesse regalato l’imperdibile saggio? Per la proprietà transitiva delle curiosità, ora è naturale che ci venga voglia di saperne di più anche di un Nobel snobbato. E così apprendiamo che era ammiratore anche di Tolstoj e che su di lui molto ha scritto. Che dopo aver lavorato come giornalista e bibliotecario, si dedicò alla poesia e a pubblicazione di racconti, fra cui vanno ricordati Valsecca, Il signore di San Francisco, L’amore di Mijtia, Viali oscuri.
In seguito alla rivoluzione del 1917, lasciò la Russia e si stabilì a Parigi. A spingerlo scrivere fu la lettura dell’epistolario di Cechov che si andava allora pubblicando in Urss. Fu per lui come una scossa improvvisa, per rivivere i momenti di una intensa amicizia. Incanta la circolarità di questi avvenimenti. Ce ne fossero ancora uomini così dotati

3 responses to this post.

  1. Un saggio molto singolare, di piacevole lettura

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  2. Spesso i saggi sono più piacevoli da leggere che un romanzo di un autore osannato.
    Sereno fine settimana
    Un grande abbraccio
    Gian Paolo

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